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12 luglio 2009 7 12 /07 /luglio /2009 17:51

Nella notte del 2 Febbraio 1959, 9 escursionisti russi morirono misteriosamente in una località di montagna nota come Холат Сяхл, Kholat Siakhl, (nella lingua Mansi, una popolazione semi nomade di ceppo ugro finnico che abita la zona da millenni,  “Montagna dei Morti”), in circostanze tuttora misteriose e che hanno generato una grande quantità di ipotesi. Da allora, la località è stata ribattezzata Passo Diatlov (Перевал Дятлова) , dal nome del capo escursionista, Igor Diatlov.

Tutto ebbe inizio quando un gruppo di studenti dell’Istituto Politecnico degli Urali (Уральский Политехнический Институт, УПИ), si riunì per partecipare a un’escursione attraverso gli Urali settentrionali a Sverdlovsk (Свердловск), oggi Iekaterinburg (Екатеринбург), guidati da un esperto conoscitore della zona, studente pure lui, Igor Diatlov (Игорь Дятлов ). Del gruppo, oltre a lui, facevano parte Sinaida Kolmogorova (Зинаида Колмогорова), Liudmila Dubinina (Людмила Дубинина), Aleksandr Kolevatov (Александр Колеватов), Rustem Slobodin (Рустем Слободин), Iuri Krivoniscenko (Юрий Кривонищенко), Iuri Doroscenko (Юрий Дорошенко), Aleksandr Solotarev (Александр Золотарев), Nikolaj Tibo-Brignol (Николай Тибо-Бриньоль), Iuri Iudin (Юрий Юдин).

Gli escursionisti volevano raggiungere l’Otorten (Отортен), una montagna dieci chilometri a nord del Kholat Siakhl, seguendo un percorso non facile, ma tuttavia alla portata dei componenti la spedizione, tutti piuttosto esperti.

Il 25 Gennaio, i dieci ragazzi arrivarono in treno a Ivdel (Ивдель), nel nord della oblast di Sverdlovsk, (Свердло́вская о́бласть) , dove noleggiarono un grosso furgone per portarsi a Vijai (Вижай) , ultimo centro abitato sul percorso. Quindi, nella giornata del 27, iniziarono a muoversi sugli sci verso l’Otorten. Il giorno seguente, Iuri Iudin fu costretto a rientrare per motivi di salute. Da quel momento, tutto quello che si sa del gruppo è stato ricostruito da diari e da un rullino fotografico rinvenuto nel sito del loro ultimo accampamento.

Il 31 Gennaio il gruppo arrivò sull’altopiano e costruì un magazzino dove lasciò una scorta di cibo e di equipaggiamento per il ritorno. Il giorno dopo, 1 Febbraio, i ragazzi si avviarono verso il Passo, con l’intenzione, stando a quanto trovato scritto nei diari, di superarlo e di accamparsi per la notte dall’altra parte, ma, a causa del sopraggiungere di una fitta nevicata che ridusse di molto la visuale, persero l’orientamento e deviarono a ovest, verso la cima del Kholat Siakhl. Accortisi dell’errore, decisero di fermarsi ai piedi della montagna.

Alla partenza, Diatlov aveva promesso di inviare un telegramma al loro club sportivo non appena il gruppo fosse tornato a Vijaj, non oltre il 12 Febbraio, ma quando tale data fu superata e il telegramma non ricevuto, nessuno si preoccupò dato che in questo tipo di escursioni rispettare una tabella di marcia non era sempre facile. Solo il 20 Febbraio, e solo su richiesta dei familiari degli escursionisti, la direzione del Politecnico inviò un primo gruppo di volontari, studenti e insegnanti, a cercare i ragazzi scomparsi. Successivamente, vista l’infruttuosità delle ricerche, vennero coinvolti anche la polizia e l’esercito, con l’impiego di aerei ed elicotteri.

Il 26 Febbraio venne finalmente ritrovato il campo, abbandonato, sul Kholat Siakhl. La tenda era strappata e una serie di impronte si allontanava da essa scendendo dal passo verso i boschi vicini, per sparire dopo 500 metri, coperte dalla neve. Da un elicottero venne rilevato qualcosa sotto un pino, e i ricercatori vi diressero per trovare i resti di un fuoco e i primi due cadaveri, quelli di Krivoscenko e di Doroscenko, senza scarpe e in mutande e maglia di lana. Facendo a ritroso il percorso dal pino all’accampamento, vennero ritrovati altri tre corpi, prima Diatlov a 300 metri dal pino, poi la Kolmogorova a 480, e infine,  Slobodin a 630 metri, tutti e tre morti in pose che suggerivano stessero facendo ritorno al campo.

Gli altri quattro non furono ritrovati che il 4 Maggio, sotto diversi metri di neve, in una piccola vallata ancora più addentro nel bosco.

L’autopsia non trovò ferite che potessero aver causato la morte, salvo una piccola frattura cranica non fatale sulla Kolmogorova; la conclusione fu che la morte era sopravvenuta per ipotermia. Quando però, in Maggio, furono esaminati gli altri corpi, lo scenario cambiò completamente: Tibò-Brignol aveva il cranio completamente sfondato, Zolotarev e la Dubunina il petto e le costole fratturate. La forza necessaria per provocare quel tipo di lesioni doveva essere stata spaventosa, uno degli esperti forensi la paragonò a quella sviluppata da un incidente automobilistico. Inoltre, i corpi non presentavano ferite esterne, come se fossero stati uccisi da un livello di pressione molto alto, e alla Dubunina era stata asportata la lingua.

Gli escursionisti erano stati costretti a lasciare il campo nella notte, in modo precipitoso: nonostante la temperatura intorno ai trenta gradi sottozero, erano tutti solo parzialmente vestiti, alcuni scalzi, altri avevano i maglioni infilati a rovescio, e tutti gli indumenti apparivano stracciati, tanto che, in un primo momento si ipotizzò che gli escursionisti fossero stati assaliti nella notte dai Mansi per avere invaso il loro territorio, ma l’ipotesi cadde ben presto visto l’assenza di impronte oltre quelle degli escursionisti.

L’inchiesta giunse a queste conclusioni:

1.       Sei membri del gruppo erano morti di ipotermia, altri tre per le ferite.

2.       Non c’erano segni che suggerissero la presenza di estranei, né sul Kholat Siakhl e nemmeno nelle immediate vicinanze.

3.       La tenda era stata strappata dall’interno.

4.       I ragazzi erano tutti deceduti fra le sei e le otto ore dopo il loro ultimo pasto.

5.       Le tracce visibili non lasciavano dubbi sul fatto che tutti e 9 avessero lasciato il campo a piedi di propria iniziativa.

6.       Le ferite e le fratture non potevano essere state provocate da un altro essere umano a causa dell’elevata forza applicata.

7.       Furono rilevati alti livelli di radioattività sui vestiti.


Il verdetto finale fu che erano morti per cause sconosciute, la documentazione venne secretata dal KGB, e solo dopo la caduta dell’URSS declassificata, anche se risultò incompleta in molte parti. Alcuni fatti vennero comunque accertati dalla documentazione resa disponibile:

1.       Dopo i funerali i parenti affermarono che la pelle dei morti avesse una strana tonalità arancione.

2.       Un ex ufficiale dell’esercito, impegnato nelle ricerche, sostenne che il suo dosimetro mostrava un livello di radioattività molto elevato sul Kholat Siakhl. L’dentificazione della fonte risulta mancante dal dossier declassificato, così come non risulta chiaro per quale motivo il personale impegnato nelle ricerche avesse dei dosimetri.

3.       Un altro gruppo di escursionisti, circa 50 chilometri a sud del luogo dell’incidente, riportò di avere visto delle strane sfere arancioni nel cielo notturno in direzione nord, e quindi verso il Kholat, il giorno stesso dell’incidente; il fenomeno venne osservato anche a Ivdel e nelle aree circostanti, e si ripeté per tutto il mese di Febbraio e di Marzo, come risulta dalle testimonianze rese da ufficiali dell’Armata Rossa e del servizio meteorologico della zona.

4.       Dalle ricostruzioni sembra che le vittime fossero state accecate: il legno acceso sotto il pino era stato realizzato in maniera convulsa, utilizzando per di più grossi tronchi umidi, quando tutt’intorno era pieno di ottima legna da ardere.

5.       Nella zona furono rinvenute delle strutture metalliche e una targhetta di identificazione del tipo usato nelle attrezzature militari, il che fa supporre che l’area fosse utilizzata in segreto.

Nel 1967, lo scrittore Iuri Iarovoj (Юрий Яровой), che aveva partecipato alle ricerche come fotografo ufficiale, scrisse un racconto ispirato alla vicenda, Высшей категории трудности[1] (Il massimo grado di complessità), ma fu costretto dalla censura sovietica ad omettere tutta una serie di fatti, che finirono con lo stravolgere completamente la narrazione. Iarovoj morì nel 1980, e un misterioso incendio distrusse tutti i suoi archivi, comprese le foto e il manoscritto originale del romanzo.

Nel 1990, ormai prossima la caduta dell’URSS, si cominciò a riparlare della storia, soprattutto sui giornali locali di Sverdlovsk. Il giornalista Anatoli Guscin (Анатолий Гущин) fu autorizzato a fare ricerche negli archivi della polizia, ma scoprì che diverse pagine erano state sottratte, compreso un misterioso “incartamento” di cui si fa menzione essere stato inviato a Mosca. Il fatto scatenò i cultori degli UFO, del paranormale, i dietrologi di ogni genere, i cacciatori di misteri. Guscin riassunse le sue ricerche nel libro Цена гостайны - девять жизней[2], “Il prezzo del segreto di Stato è nove vite”, che suscitò diverse critiche per via della sua teoria su una misteriosa arma segreta che sarebbe stata sperimentata in quei luoghi e avrebbe causato la morte dei nove ragazzi, ma la pubblicazione del libro suscitò comunque l’interesse dell’opinine pubblica e sciolse qualche lingua rimasta attorcigliata per oltre trent’anni: Lev Ivanov (Лев Иванов), l’ufficiale di polizia che diresse l’inchiesta, in un articolo[3] apparso nel Novembre 1990, ammise che non era stata trovata una spiegazione razionale per la morte dei ragazzi, né per l’incidente in sé, così come che gli era stato ordinato dal KGB di archiviare in fretta l’inchiesta e tacere le voci sulle misteriose “sfere arancioni”. Ivanov conclude l’articolo sostenendo la sua persona le convinzione si sia trattato di UFOs.

Nel 2000, una TV locale produsse il film documentario Перевал Дятлова (“Passo Diatlov”), seguito da una romanzo, scritto dalla giornalista di Iekaterinburg Анна Матвеева (Anna Matvejeva) dallo stesso titolo[4], basato in gran parte sui diari delle vittime e su interviste coi membri della squadra di soccorso dell’epoca. Iuri Kuntzevitch (Юрий Кунцевич), amico di Diatlov, ha creato, col supporto del Politecnico degli Urali,  una fondazione a lui dedicata con lo scopo di convincere le autorità russe a riaprire il caso.

E Iuri Iudin, l’unico sopravissuto della scampagnata, ha dichiarato: “Se avessi la possibilità di rivolgere a Dio una sola domanda, sarebbe ‘Cosa realmente è successo ai miei amici quella notte’?

 








[1] Яровой Юрий: "Высшей категории трудности", Средне-Уральское Кн.Изд-во, Свердловск, 1967

[2] Гущин Анатолий: "Цена гостайны - девять жизней", изд-во "Уральский рабочий", Свердловск, 1990

[3] Иванов Лев: "Тайна огненных шаров", "Ленинский путь", Кустанай, 22-24 ноября 1990 г

[4] Матвеева Анна: "Перевал Дятлова", "Урал" N12-2000, Екатеринбург








 


La mappa del Passo Diatlov.

 

Igor Diatlov. A destra: Iuri Doroscenko.



Iuri Iudin, il sopravissuto.

















La ricerca







Sotto questo pino, avevano acceso il fuoco





Si cerca nella neve.

Ecco come fu ritrovata la tenda:











Il ritrovamento dei corpi in Maggio







Sotto: ricostruzione dell'incidente con le famose
sfere di fuoco arancione.





Il ceppo eretto sul Passo Diatlov.



La targa aggiunta nel 2000.
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7 luglio 2009 2 07 /07 /luglio /2009 11:00

Il New York Times del 29 Luglio 1917, riporta la notizia che, nell'inverno 1916-17, enormi branchi di lupi affamati fecero la comparsa sul fronte orientale, soprattutto nel settore di Kovno, in Lituania, aggredendo e sbranando perfino i soldati nelle trincee. Alla fine, il comando russo e quello tedesco dovettero negoziare una tregua e formare pattuglie miste per combattere la piaga.

link

 

 

 

 

 

 

 

 

Published: July 29, 1917

Copyright © The New York Times

 

 



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6 luglio 2009 1 06 /07 /luglio /2009 19:24

La guerra “Americana” del Vietnam, iniziò alla fine degli anni 50, quando il presidente sudvietnamita Ngô Đình Diệm lanciò una violenta campagna anticomunista tesa a “tagliare fuori” le forze del Viet Minh che premevano per arrivare alle elezioni generali previste dagli accordi di Ginevra, ufficialmente per la paura di brogli, in realtà perché perfettamente conscio della sua impopolarità. Nel tentativo di coinvolgere di americani, raccomandò ai suoi generali di evitare i combattimenti con le forze comuniste ad ogni costo. Hanoi, preoccupata di un intervento americano, ordinò al Viet Minh di ritirarsi nelle zone più inaccessibili del paese, manovra che riuscì senza difficoltà grazie al lassismo delle forze sudvietnamite, il cosiddetto ARVN (Army of the Repubblic of VietNam).

Il supporto americano ebbe inizio nel 1960 con l’arrivo di numerosi contingenti delle Special Forces (all’epoca questa designazione riguardava solo i Green Berets), col compito di supportare le forze sudiste sul campo. Era il periodo degli advisors, noti in Italia come consiglieri militari.

Con gli americani arrivarono gli elicotteri, che dovevano cambiare la natura della battaglia, consentendo all’ARVN di raggiungere in breve praticamente ogni angolo, anche il più remoto e inaccessibile, del paese. E arrivarono i mezzi blindati, contro i quali, i guerriglieri non avevano difesa. All’inizio del 1962 le forze sudvietnamite avevano acquisito sufficiente capacità bellica; l’uso di mezzi blindati e di elicotteri faceva spesso la differenza negli scontri coi male armati guerriglieri, che, sprovvisti di adeguato equipaggiamento anticarro, dovevano lasciare il campo con pesanti perdite. Un piccolo sforzo avrebbe portato il Sud alla vittoria…





La Settima Divisione sudvietnamita era al comando del colonnello Huỳnh Văn Cao, anche se il vero comandante dell’unità era il suo consigliere americano, Tenente Colonnello John Paul Vann. Vann, grazie alla sua abilità tattica, unita a una buona visione strategica e una discreta conoscenza della lingua e dei costumi locali, rese l’unità la migliore dell’esercito sudvietnamita, i suoi successi nella pacificazione delle campagne si contavano con le migliaia di guerriglieri uccisi, e con altre migliaia nascosti nella giungla più profonda senza speranze. Ma gli ufficiali ARVN erano comunque riluttanti ad affrontare il nemico in battaglia, per la paura di subire perdite. Numerose volte, i soldati di Cao si trovarono in buona posizione per attaccare con successo grosse unità di guerrigliere, ma evitarono il contatto con un pretesto o l’altro e permisero ai nemici di sfuggire.



Vann osservava indeciso questo comportamento, il suo tentativo di rendere Cao un comandante aggressivo sul modello americano procedeva a tentoni. Vann non era a conoscenza del fatto che Diệm stesso era contrario a ogni perdita militare e attaccava duramente quegli ufficiali che perdevano troppi uomini in azione, senza badare a quanto successo avete incontrato l’azione stessa, convinto com’era che un tentativo di colpo di stato nel 1960 fosse dovuto alle eccessive perdite fra le truppe impiegate contro i guerriglieri. Era molto più interessato a preservare un esercito forte per proteggere il SUO regime anziché difendere il paese. E così aveva piazzato alle cariche più alte dei suoi fedelissimi, come Cao, che era purtroppo anche un perfetto incapace. Dopo un combattimento che era costato all’ARVN diverse perdite, Cao fu chiamato a Saigon e seccamente rimproverato da Diệm. Al suo ritorno al reparto, ignorò i consigli di Vann e fece ricorso all’eccellente rete di informatori sviluppata da quest’ultimo solo per identificare aree sgombre da guerriglieri dove pianificare “brillanti” azioni militari. Addirittura molte operazioni furono eseguite solo sulla carta, falsificando rapporti di azioni inesistenti e vantando successi mai ottenuti.

Nel 1962, Diệm decise di dividere il comando della zona a sud di Saigon in due: il Terzo Corpo venne ridotto di misura per coprire la zona a nordest della città, e il Quarto Corpo Tattico, creato ex novo di proposito, l’ovest e il sudovest. Cao fu promosso generale e assunse il comando del Quarto, il cui settore operativo copriva anche l’area precedentemente assegnata alla Settima Divisione. Il comando di quest’ultima passò al suo ex capo di stato maggiore, Colonnello Bui Dinh Dam, che confessò a Vann di non sentirsi affatto in grado di coprire quell’incarico ma che era stato costretto ad accettarlo.

Poco prima di Natale del 1962, l’intelligence localizzò una stazione radio Vietcong nei pressi di Tan Thoi, un miglio a nord ovest del villaggio (ap, in lingua vietnamita) di Bac. Si riteneva che una compagnia di circa 120 uomini presidiasse l’area. Vann e Dam pianificarono rapidamente un’azione per distruggere la stazione radio e la compagnia Vietcong.

Il piano prevedeva un attacco su tre direttrici portato dalle forze della Settima coadiuvate da unità regionali (qualcosa di simile alla Guardia Nazionale americana) dirette dal comandante della provincia, Maggiore Lam Quang Tho. Un battaglione di 330 uomini sarebbe stato eliportato a nord di Tan Thoi, mentre altri due battaglioni sarebbero venuti da sud in colonne parallele; 13 APCs M113 con una compagnia di fanteria avrebbero attaccato da ovest, altre due compagnie sarebbero rimaste di riserva. Tutto con in supporto dell’artiglieria e dell’aviazione. La manovra a tenaglia aveva lo scopo di incanalare le forze vietcong su direttrici est-nordest, dove sarebbero state battute dall’artiglieria e dai caccia bombardieri.






Il Vietcong poteva contare su un battaglione di 320 uomini, cui si aggiungevano 30 guerriglieri locali. L’unità era ben equipaggiata, con materiale americano di preda bellica, molti soldati avevano carabine Winchester M1 cal. 7,62, un arma particolarmente adatta al combattimento nella giungla, oltre a fucili Garand M1. In più, ciascuna delle tre compagnie del battaglione disponeva di una mitragliatrice calibro .30, ognuno dei dodici plotoni del battaglione aveva un fucile mitragliatore BAR. In più, disponevano di un mortaio da 60.

Vann consigliò Dam di muovere il più rapidamente possibile, ma quest’ultimo tirò la cosa per le lunghe e solo il 2 Gennaio 1963 l’operazione prese il via. Il Vietcong, nel frattempo, venuto a conoscenza tramite i suoi informatori, della pianificata operazione militare, iniziò a trincerarsi a nord di Tan Thoi e lungo il letto alberato di un torrente che spingeva verso Ap Bac. Le posizioni del Vietcong erano coperte dagli alberi e dalla vegetazione a terra, rendendone difficile l’identificazione sia da terra che dal cielo. Inoltre, il comandante Vietcong poteva disporre delle accurate analisi delle tecniche di combattimento americane e sudvietnamite fornite da Pham Xuan An, un giornalista della Associated Press che lavorava per il governo di Hanoi.

Alle ore 0700L del 7 Gennaio 1963, 10 elicotteri CH21 Shawnee iniziarono il trasporto dei soldati ARVN verso l’area a nord di Tan Thoi. A causa di una densa nebbia, fu possibile compiere un solo viaggio, trasportando una compagnia, il resto delle truppe avrebbe seguito qualche ora più tardi, mentre i soldati sbarcati dovevano tenere la posizione.

Questo ritardo lasciò due battaglioni delle forze regionali provenienti da sud praticamente soli contro il nemico. Alle 0745L, il primo battaglione raggiunse il filare di alberi a sud di Ap Bac, dove i guerriglieri li lasciarono avvicinare tranquillamente prima di aprire il fuoco dalle loro posizioni nell’erba elefante. Un comandante di compagnia fu il primo caduto sudvietnamita, mentre il suo battaglione cercava rifugio dove poteva e passò le due successive ore nel tentativo infruttuoso di aggirare i guerriglieri. Il fuoco dell’artiglieria americana fu mal diretto perché gli ufficiali sudvietnamiti non sporgevano la testa dai loro ripari per dirigere il tiro nel timore di essere colpiti. Alle 1000L fu ferito gravemente anche il comandante di battaglione e ogni manovra fu sospesa.




Il Maggiore Tho, sbarcato a nord di Tan Tho col secondo battaglione, rifiutò di intervenire in soccorso dei commilitoni per paura di perdite, mentre Vann, comprendendo finalmente cosa stava accadendo, ottenne che Dam facesse sbarcare le due compagnie di riserva della Settima in una risaia a ovest di Ap Bac e a nord degli alberi dietro quali avevano preso posizione i guerriglieri. Sulla base dei rapporti radio degli ufficiali ARVN, Vann era convinto, che l’intera forza Vietcong (sottostimata, come abbiamo visto) stesse sparando contro i regolari sudvietnamiti, non sapeva che stava mandando i rinforzi in un’area presidiata da una compagnia di Vietcong, e che le forze che tenevano inchiodati gli ARVN erano della consistenza di un plotone rinforzato.

I CH21s provenienti da nord, scortati da 5 Hueys armati, finirono dunque in mezzo alle truppe comuniste, che aprirono immediatamente il fuoco. Uno Shawnee non riuscì più a prendere il volo dopo avere scaricato le truppe, un secondo elicottero che cercava di soccorrere il primo fu abbattuto. I due equipaggi americani furono infine recuperati da uno Huey per essere abbattuti subito dopo dal fuoco nemico assieme a un terzo CH21, mentre le truppe ARVN cercavano scampo in un canale di irrigazione. Erano le 1030L.

Vann ordinò allo squadrone APC di dirigere su Ap Bac per portare soccorso alle truppe e agli equipaggi degli elicotteri abbattuti. Gli M113 furono bloccati dalle rive troppo ripide dei canali di irrigazione delle risaie, e il Capitano Ly Tong Ba, che comandava lo squadrone APC, temendo perdite fra i suoi uomini se avessero tentato di scendere dai mezzi, rifiutò di proseguire. Vann, che stava sopraggiungendo a bordo di un L19 da osservazione, gli urlò alla radio di andare avanti, ma Ly gli rispose che in quanto ufficiale ARVN rispondeva solo ai suoi superiori e non ad un advisor americano. Nel frattempo, un altro CH21 fu abbattuto, mentre un quinto, danneggiato dovette allontanarsi per fracassarsi poi sulla pista della base. I Vietcong avevano messo fuori uso cinque elicotteri in dieci minuti, se non era un record gli assomigliava molto da vicino.



CH-21 sullo sfondo, in primo piano un UH-1 abbattuti nella risaia.



UH-1



Ancora CH-21 costretti a prendere terra.

Nonostante tutto, il battaglione della Settima proveniente dal lato settentrionale di Tan Thoi, teneva i Vietcong sotto pressione, e a sud di Ap Bac sembrò che si riuscisse a sfondare, grazie anche al costante supporto aereo e di artiglieria, per quanto mal diretto. Piccoli reparti ruppero qua e là, ma i loro comandanti, spaventati dalle perdite subite, rifiutarono di puntare a sud, verso Ap Bac, e ripiegarono su Tan Thoi, dove la situazione era più tranquilla.

Alle 1345L gli APC sbucarono finalmente in vista della risaia a ovest del villaggio, ma ebbero difficoltà a localizzare il remico a causa della densa vegetazione e dell’erba elefante. I Vietcong fecero fuoco sui mezzi, concentrandosi soprattutto sui mitraglieri che sporgevano dal tetto degli M113. Anche il conducente di uno di questi fu ucciso, un altro ferito, perché guidava con la testa fuori dalla botola. In altre occasioni i guerriglieri erano scappati a gambe levate davanti ai mezzi cingolati senza sparare, e ci si aspettava facessero ora lo stesso. Il lato grave della situazione era che mitraglieri e conducenti erano di solito sottufficiali a capo della squadra di soldati trasportata, senza di loro i soldati si rifiutavano di combattere. Lo stesso comandante Ba fu colpito, e tutti i mezzi si fermarono e rifiutarono di proseguire senza di lui.

Benché ferito gravemente, Ba riuscì a riorganizzare lo squadrone e a riprendere l’attacco, ma molto lentamente, perché ora i conducenti superstiti guidavano coi portelli chiusi per non esporsi al fuoco nemico, e non erano stati addestrati a guidare velocemente con gli iposcopi sotto il fuoco. Proprio mentre l’attacco sembrava aver successo, un sergente Vietcong riuscì a guidare i suoi uomini contro i mezzi e a lanciare bombe che non fecero grossi danni ma aggiunsero confusione allo scompiglio che frastornava soldati alla loro prima battaglia campale. Un tentativo di impiegare un carro lanciafiamme fallì perché la gelatina era stata miscelata male e non raggiungeva la densità sufficiente per raggiungere gli alberi dai quali sparavano i Vietcong, a 100 metri circa di distanza. Secondo gli advisors, un reparto americano sarebbe stato in grado di spazzare via quel tipo di resistenza con poche perdite e poco tempo, ma i male addestrati soldati ARVN era un’altra cosa.



Vann a quel punto chiese in rinforzo un battaglione aeroportato ARVN, ma, benché esso potesse essere scaricato in zona entro un’ora, nessuno lo vide arrivare. L’americano chiamò via radio il comando solo per sentirsi dire che non avevano ricevuto nessun ordine da Cao, e allora egli rientrò alla base, dove affrontò il vietnamita a muso duro. Alla fine si decise di seguire gli ordini di Vann, che ripartì col suo aereo per osservare la battaglia. Alla radio apprese poi che Cao aveva ordinato di lanciare i parà nmella risaia, e non dove sarebbero stati necessari, dietro le linee vietcong. Furioso, chiamò Cao alla radio “Voi non volete combattere”, gli urlò, “volete solo fare una parata mentre i VC scappano”, ma non ci fu niente da fare.

L’Ottavo battaglione, lanciato da alcuni C123 e C119 americani, finì quindi nella risaia al tramonto di quel giorno e non poté muovere che l’indomani mattina perché gli ufficiali, temendo come previsto che un combattimento notturno avrebbe comportato troppe perdite, rifiutarono di muovere verso il nemico. Solo a mezzogiorno dell’indomani, i parà di Saigon andarono all’attacco delle posizioni abbandonate dai Vietcong durante la notte. Per giunta fu loro ordinato di tenere la posizione, sebbene Vann insistesse perché dessero, almeno, la caccia ai guerriglieri sfuggiti.

Il Vietcong perse 18 uomini, 39 furono feriti. Le truppe ARVN, dieci volte superiori per numero ed equipaggiate pesantemente e modernamente, soffrirono 80 caduti e 100 feriti, oltre a 3 consiglieri americani uccisi in azione e altri otto feriti. Nove elicotteri e 3 M113 andarono distrutti.




Ap Bac rappresenta una svolta nella guerra del Vietnam. Per la prima volta i guerriglieri comunisti avevano affrontato con successo truppe meccanizzate e supportate da artiglieria e aviazione, che fino a quel momento erano state il loro terrore e solo la paura di subire troppe perdite aveva impedito all’ARVN di schiacciarle. Peggio, Hanoi capì che poteva combattere con successo nel sud e cominciò a pianificare la sua guerra. Pham Xuan An fu decorato per le preziose informazioni fornite che avevano permesso quel significativo successo.

La battaglia segnalò anche un cambiamento di direzione nel coinvolgimento americano. Vann e altri consiglieri sul posto chiesero che i reparti ARVN fossero comandati da ufficiali americani anziché locali, ma quello puzzava di colonialismo, e gli americani lo odiavano. E come l’attività Vietcong aumentò nel 1963 e 64, ci si rese conto che l’unica soluzione possibile era l’invio di reparti combattenti direttamente dagli Stati Uniti.




M-113 ACAV con spaccato (sotto).



Come conseguenza della morte di 14 mitraglieri ARVN degli M113, i mezzi furono modificati con l’aggiunta di scudi a protezione delle armi da .50. successivamente vennero aggiunte due armi da .30 sparanti da portelloni laterali e posteriori ugualmente scudate, dando luogo così a una versione dell’M113 nota come ACAV (Armoured Cavalry Assault Vehicle), tuttora in uso in vari eserciti.



Bibliografia: David M. Toczek, The Battle of Ap Bac, Vietnam They Did Everything but Learn from It Greenwood Press, USA, 2001




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6 luglio 2009 1 06 /07 /luglio /2009 19:20


Geoffrey Nathaniel Pyke (1893-1948)




Nel 1942, nel momento forse più buio della Battaglia dell’Atlantico, mentre i branchi di lupi affondavano milioni di tonnellate di naviglio alleato senza che nulla paresse in grado di contrastarli efficacemente, il giornalista e inventore sui generis inglese Geoffrey N Pyke, all’epoca assegnato all'ufficio del Capo delle Operazioni Combinate, Lord Mountbatten, sortì l'idea di utilizzare gli icebergs, opportunamente livellati, come aeroporti galleggianti per consentire la scorta aerea dei convogli attraverso l'Atlantico. L'aeroporto, ovviamente, prima o poi, si sarebbe sciolto, andando alla deriva verso sud, ma Pyke riteneva che si potesse limitare entrambi i processi, ricoprendo il ghiaccio di una sostanza che ne rallentasse la liquefazione, e dotandolo di motori che contrastassero le correnti marine. Per di più, un iceberg sarebbe risultato praticamente invulnerabile ai siluri, e un eventuale bombardamento navale non avrebbe fatto molti danni in più che in un normale aeroporto, danni che comunque potevano essere riparati in breve, pompando acqua marina e refrigerandola per trasformarla in ghiaccio che poi i bulldozers avrebbero livellato.

Mountbatten parlò dell'idea a Winston Churchill, che ne fu entusiasta. Nacque così il Project Habakkuk (spesso scritto erroneamente Habbakuk), da un versetto della Bibbia, "Vedete fra le nazioni, guardate, meravigliatevi e siate stupefatti! Poiché io sto per fare ai vostri giorni un'opera, che voi non credereste, se ve la raccontassero" (cfr Abacuc, 1,5, Bibbia versione Luzzi, la più fedele nella traduzione italiana alla King James). Il progetto, dopo vari passaggi, si tramutò in una sorta di portaerei di ghiaccio della lunghezza di 2000 piedi (610 metri), una larghezza di 300 (91) e un pescaggio di 40 (12), per un dislocamento che doveva superare i due milioni di tonnellate.









L'enorme mole della nave fece sorgere non pochi problemi. Il ghiaccio è fragile e viene deformato dalla pressione, tenere insieme una massa di quelle dimensioni poteva essere un’impresa (chiunque abbia visto un iceberg dal vero, sa che perde pezzi in continuazione. Per il "berg" non è un problema, per una struttura militare sì). Alla ricerca di una soluzione, fu costruito un prototipo, nella provincia canadese dell'Alberta, alla larga, si sperava, dagli occhi indiscreti: uno scheletro di legno di 60 piedi per 30 (18 metri per 9 circa), riempito di blocchi di ghiaccio e coperto da un telone isolante. Un sistema di raffreddamento simile a quello di un surgelatore mandava aria gelata attraverso una rete di sottili tubi per mantenere la temperatura della struttura al di sotto dello zero. Il tutto fu poi calato in un lago.

Nel frattempo (siamo ormai all’inizio del 1943), due ricercatori del Polytechnic Institute of Brooklyn, New York, scoprirono per caso che miscelando segatura (o altri materiali fibrosi come il cotone, o la carta di giornale) e acqua, in proporzione 14-86, e portando il tutto a meno quaranta, si poteva creare una sostanza in grado di galleggiare pur essendo molto più resistente del ghiaccio. Il materiale fu chiamato pykrete, o pykecrete, contrazione di Pyke e concrete, cemento. Successivi esperimenti dimostrarono che resisteva alla pressione, al calore e, entro certi limiti, perfino agli esplosivi, poteva essere tagliato con normali attrezzi industriali, e scioglieva molto più lentamente del ghiaccio. Si racconta che Mountbatten dimostrasse a Churchill la resistenza del pykrete gettandone un pezzo nel bollitore del the del primo ministro. Sembrava fatto apposta per risolvere tutti i problemi di Habakkuk.




Habakkuk, al centro, paragonata con una moderna CV e una nave da battaglia dell'epoca.


Nonostante le sue apparenti miracolose proprietà, il pykrete non poteva risolvere altri problemi che si erano manifestati nel frattempo. Le portaerei Habakkuk sarebbero costate, si stimava, non meno di 100 milioni di dollari (più di una nave da battaglia della classe Iowa, per intenderci), e la sua costruzione poneva problemi ingegneristici di non facile soluzione immediata, oltre che di reperibilità del materiale: la cellulosa, in quel momento, scarseggiava, a differenza dell’acciaio. D’altro canto, l'autonomia degli aerei alleati andava aumentando sensibilmente, e ciò permetteva di scortare i convogli direttamente dalle basi in Canada, Islanda e Scozia, senza contare che gli americani stavano producendo centinaia di portaerei di scorta convertendo navi commerciali. Tutto questo fece apparire Habakkuk uno spreco di risorse. Il progetto fu cancellato all’inizio del 1944, prima che iniziasse la costruzione della prima portaerei. Il pikrete finì nel dimenticatoio delle invenzioni senza sbocco pratico.



Un campione di pykrete utilizzato per i test balistici.

BIBLIOGRAFIA: Perutz, M. F. (1948). "A Description of the Iceberg Aircraft Carrier and the Bearing of the Mechanical Properties of Frozen Wood Pulp upon Some Problems of Glacier Flow". The Journal of Glaciology 1 (3): 95–104
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6 luglio 2009 1 06 /07 /luglio /2009 19:16







Grenada e le Grenadine.


Grenada è un'isola-nazione nel Mar dei Caraibi sud-orientale, che comprende anche le Grenadine meridionali. È la seconda più piccola nazione indipendente nell'emisfero occidentale (dopo Saint Kitts e Nevis): ha una superficie di 344 chilometri quadrati e una popolazione di circa 90 mila abitanti. Ex-colonia britannica, indipendente dal 1974, sotto la guida del primo ministro Sir Eric Gairy, dapprima molto popolare in quanto capo del Grenada United Labour Party, da lui fondato nel 1950, che aveva giuidato il Paese all’indipendenza, e poi fortemente contestato dopo la rielezione nel 1976. Si parlò apertamente di brogli, si accusò Gairy di voler instaurare una dittatura nel Paese, ma quello che preoccupava maggiormente le capitali dei Paesi alleati (USA e Gran Bretagna, principalmente), era la sua evidente instabilità mentale, non tanto perché sostenitore dell'esistenza degli extraterrestri al punto da parlarne pubblicamente all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite (anche il Presidente americano di quel tempo, Jimmy Carter, era convinto della loro esistenza, e dichiarò in diverse occasioni di avere visto degli UFOs), ma perché dedito al culto dei riti voodoo e della santeria; viveva circondato di stregoni e fattucchiere, e pretendeva di esorcizzare personalmente ogni persona a suo dire "posseduta".


 

 

Sir Eric Gairy. A fianco: Maurice Bishop con Fidel Castro.





L'opposizione, sostenuta anche dagli Stati Uniti, prese rapidamente la forma di violente proteste civili, che trovarono la loro naturale guida nel New Joint Endeavor for Welfare, Education, and Liberation (New JEWEL Movement, NJM tout court), un movimento di vaga ispirazione marxista, guidato da uno studente di economia laureato a Londra, Maurice Bishop, che rovesciò Gairy con un colpo di stato incruento, il 13 Marzo 1979, mentre il primo ministro stava parlando di UFOs al Palazzo di Vetro. Bishop, che per anni aveva seduto nel parlamento dell'isola come capo dell'opposizione, fu nominato primo ministro, con la prima preoccupazione di sospendere la costituzione e mettere fuori legge tutti i partiti tranne il suo. Non è chiaro se Bishop, persona fino a quel momento equilibrata e moderata, nonostante le sue idee marxiste, agisse di suo o fosse manovrato dal comitato del partito, infiltrato da agenti della DGI, di certo rimane il fatto che Grenada divenne rapidamente il secondo stato marxista dell'area dopo Cuba.

Bishop instaurò immediatamente stretti legami con Cuba, e diede il via a numerosi progetti, fra i quali i due più controversi furono senz'altro la costruzione dell'aeroporto di Salines, nella parte meridionale dell'isola, e la creazione di un nuovo esercito: il People's Revolutionary Army, PRA. L'aeroporto di Salines era ritenuto una minaccia militare dalla nuova amministrazione americana di Ronald Reagan (dalla sua pista, prevista della lunghezza di 2700 metri, potevano operare anche bombardieri pesanti), e il PRA veniva giudicato dagli oppositori uno spreco di denaro e, sostanzialmente, uno strumento di potere nelle mani del NJM.

Il 13 Ottobre 1983, vi fu un nuovo colpo di stato, a opera di una fazione del NJM guidata dal vice primo ministro Bernard Coard; pare che Fidel Castro in persona avesse ordinato il putsch, preoccupato da un riavvicinamento dell'isola agli USA. Bishop venne arrestato, ma la popolazione si riversò in strada e cercò di liberarlo dalla prigione dove era detenuto. Le guardie aprirono il fuoco uccidendo centinaia di cittadini disarmati, successivamente Bishop venne fucilato insieme a molti membri del governo che gli erano rimasti fedeli in circostanze mai completamente chiarite.

A questo punto l'esercito, comandato da Hudson Austin, formò una giunta militare e prese il potere, mettendo il Governatore Generale britannico, Paul Scoon, agli arresti domiciliari. Vennero annunciati anche 4 giorni di coprifuoco totale: chiunque fosse stato sorpreso in strada sarebbe stato immediatamente ucciso.

L'Organizzazione degli Stati dei Caraibi Orientali richiese agli Stati Uniti, Barbados e Giamaica di stabilizzare la situazione a Grenada. Si trattava di una pura formalità, perché gli USA avevano deciso di intervenire comunque, preoccupati che l'isola cadesse definitivamente nella mani di Castro, e questo benché il lider maximo, fiutando i guai nell'aria, avesse preso le distanze dai fatti di Grenada: già il 20 Ottobre, l'Avana si era dichiarata "profondamente costernata" per gli eventi dell'isola, e aveva deplorato l'inutile spargimento di sangue. Castro in persona aveva ricordato Bishop come un suo caro amico. Il 22 il dittatore dichiarò pubblicamente che i "consiglieri" cubani presenti nell'isola (ufficialmente medici e ingegneri impiegati in aiuto alla popolazione locale), non sarebbero intervenuti in caso di invasione americana (come? Brandendo bisturi e badili?, nda) se non direttamente attaccati. Addirittura il governo cubano offrì la sua collaborazione per l'evacuazione dei cittadini stranieri (soprattutto studenti americani della locale facoltà di medicina) rimasti bloccati nell'isola dagli scontri.


L'aeroporto di Salines fotografato da un satellite poche ore prima dell'attacco.

Ma era troppo tardi per fermare la macchina militare che si era messa in moto agli ordini dell'ammiraglio Joseph Metcalf III. Operation Urgent Fury, come suggerisce il nome, fu decisa con una certa precipitazione, pare che perfino i comandanti delle navi da guerra impegnate non sapessero nulla fino a 24 ore prima dell'invasione, il 22nd MAU (Marine Amphibious Unit), fu ridiretto sull'isola mentre era in navigazione verso il Libano, l'82nd Airborne e il 1st Ranger ricevette mappe turistiche perché non ne esistevano di militari, i SEALs e la Delta ebbero foto scattate poche ore prima da un SR71 inviato da Puerto Rico, non essendoci tempo per reindirizzare i satelliti spia sull'isola.

Gli imprevisti così non mancarono. Una squadra SEAL incaricata di fornire intelligence sulla pista di Salinas, non poté prendere terra poco dopo la mezzanotte del 25 Ottobre, perché nelle mappe non era segnalata una scarpata, una della Delta fu paracadutata in uno stadio di calcio anziché sull'università, mentre altre azioni andarono meglio. Le squadre SEAL col compito di mettere in sicurezza la residenza del governatore generale inglese, atterrarono impeccabilmente sul bersaglio dopo un Halo da novemila metri, i militari a guardia furono tutti eliminati senza perdite. Stesso successo ebbe l'assalto alla stazione radio del governo per impedire la diffusione di notizie sull'attacco in corso.





Paracadusti americani su Salines.




Paracadutisti americani in marcia verso St. George's.


 

Carri dei Marines. Un CH-46 abbattuto a Pearls.



"Volontari" cubani catturati dagli americani.



Rangers sbarcano da un UH-60. Sotto: un altro Sikorsky, qui al suo primo impiego operativo.





Bombardamento americano a Point Calivigny.



Obici M-102 dell'Airborne in azione contro le postazioni nemiche.



L'arrivo dei C-141 a Salines.



Rangers a Point Salines, appena sbarcati dal C-141 sullo sfondo, giunto direttamente dalla Florida.





Un binato contraereo da 23mm SU. La presenza di questi sistemi fu una sgradita sorpresa.





Due CH-46 abbattuti a Pearls nelle prime fasi dell'operazione.

L'invasione vera e propria nel frattempo era cominciata. Alle 0500L, 500 Marines delle compagnie Able e Baker, partiti dalla portaelicotteri Guam, toccarono terra presso il piccolo aeroporto di Pearls, accolti dal fuoco del PRA. Un ZU23 sovietico abbatté immediatamente un CH46 che, dopo aver scaricato le truppe stava rialzandosi, uccidendo il pilota. I marines si ritrovarono inchiodati fra le palme e la spiaggia, con le compagnie Fox ed Echo in volo a loro volta verso Pearl dalla Guam. Fu richiesto supporto a fuoco, un paio di elicotteri Sea Cobra furono inviati dalla LPH, che soppressero rapidamente il fuoco nemico, permettendo alla compagnia Echo di atterrare in sicurezza, mente Fox finì sotto il fuoco dei mortai sfuggiti ai Sea Cobra poco prima. Dopo due ore di combattimenti fu possibile muovere verso Greenville, a sud dell’aeroporto.

Alle 0534L quattro C130, appoggiati da uno Spectre, lanciarono i primi Rangers sull'aeroporto di Salines, che fu messo rapidamente in sicurezza dopo un breve combattimento costato ai GIs cinque morti e sei feriti (sconosciute le perdite fra i governativi e i cubani), per permettere l'arrivo di 800 uomini della 3rd Brigade, 82nd Airborne, direttamente da Bragg, su C141, incaricati di portare soccorso agli oltre 1000 studenti americani (e di altre nazionalità caraibiche), rimasti bloccati dai disordini seguiti al colpo di stato all'interno dei due campus, True Blu e Romeo Dog (curiosamente, Romeo Dog era il radio call dell'unità sbarcata a Baia dei Porci, nda), del St. George's Medical Center. True Blue, situato al termine della pista in costruzione dell'aeroporto, fu in realtà raggiunto e messo in sicurezza dagli stessi Rangers che avevano assaltato Salines, Romeo Dog, lontano qualche chilometro nei pressi di Grand Anse (l'isola, originariamente e per oltre un secolo colonia francese, conserva molti toponini in quella lingua), fu raggiunto nel primo pomeriggio, dopo violenti combattimenti fra l'82nd e i cubani che avevano messo blocchi stradali.

Alle 0600L, Marines della compagnia Golf provenienti dalle navi trasporto carri Manitowoc e Barnstable County, presero terra con 13 LVTPs e 5 MBTs M60, a Grand Mal, poco a nord di St George's, con l'obiettivo di raggiungere la residenza del Governatore inglese, obiettivo raggiunto solo alle 0712L del giorno seguente, dopo una serie di violenti scontri con le truppe cubane, trincerate al riparo di posizioni fotemente protette, risolto grazie all'intervento di assaltatori A7E dalla portaerei Independence, costantemente disturbati dal tiro contraereo. "Quei figli di puttana avevano un sacco di munizioni", ricorda il pilota di un Corsair, "e, perdio, le consumarono tutte per cercare di tirarci giù". Un altro CH46 e un Sea Stallion vennero infatti abbattuti.

Il 26 Ottobre passò relativamente tranquillo, gran parte della giornata fu dedicata dalle truppe americane all'evacuazione dei feriti e al rastrellamento delle località conquistate, ma all'alba del terzo giorno, 27, Rangers e Marines, con l'appoggio degli aerei della Independence, attaccarono le postazioni cubane di Fort Adolphus, Fort Matthew e la prigione di Richmond Hill, con l'appoggio degli aerei della Navy, sempre fatti oggetto di un tumultuoso, per quanto impreciso, fuoco contraereo.

Contemporaneamente, l'82nd Airborne, col supporto delle artiglierie navali e degli elicotteri armati, mosse verso le caserme di Calivigny, a est dell'aeroporto di Salines, la cui conquista, conclusa in poche ore di duri scontri, rappresentava l'ultimo degli obiettivi maggiori prefissi dal piano di invasione. Nella tarda serata, i Rangers, avendo esaurito la loro missione, lasciarono Grenada per fare ritorno nelle loro basi negli USA

Il giorno seguente, 28, i Marines e l'82nd entrarono finalmente in contatto a Ross Beach. Misero immediatamente in sicurezza St George's e facendo piazza pulita delle ultime sacche di resistenza. Rimanevano ancora piccole unità di sbandati cubani, che combatterono occasionalmente fino al 2 Novembre, quando tutti gli obiettivi potevano dirsi raggiunti. Il giorno dopo, 3, i Marines iniziarono il reimbarco sulle unità anfibie che vennero avviate sulla loro rotta originaria verso il Libano. In totale, gli americani impiegarono 1900 uomini per l'urto iniziale, che diventarono 5000 nei giorni successivi, oltre a 350 uomini forniti da da Antigua, Barbados, Dominica, Giamaica e St. Lucia e inquadrati nella cosiddetta Caribbean Peace Force (CPF), impiegati principalmente come polizia militare. A fronteggiarli, trovarono 1200 Grenadiani, 780 cubani, 49 sovietici, 24 nordcoreani, 16 tedeschi (DDR), 14 bulgari e 4 libici, dei quali solo i cubani combatterono. 599 cittadini americani, e 80 di altre nazionalità, furono evaqcuati dall'isola nei primi tre giorni, mentre le perdite ammontarono, per gli americani, a 18 caduti e 116 feriti (77 curati direttamente sulla LPH Guam, gli altri, più gravi, inviati all'ospedale della Roosevelt Roads Naval Station di Puerto Rico), sconosciute quelle del nemico, che si ritengono, comunque, molto pesanti.




BTR 60 distrutti dai combattimenti.  



Feriti americani in attesa di essere evacuati. 


 
Un AH-1 sorvola degi UH-60 parcati a Salines.



Studenti americani in attesa di salire su un C-141 per fare ritorno negli USA.


Urgent Fury fu un sussesso? Sicuramente sì, perché raggiunse gli obiettivi prefissati, compreso quello di garantire all'isola un governo democraticamente eletto, ma dal punto di vista tattico non si può dire altrettanto. La missione risultò poveramente pianificata per la semplice ragione che nessuno aveva mai pensato di intervenire a Grenada fino a poche prima, e questo con buona pace di chi sostiene che i perfidi demogiudoplutomassoni americani bramassero da anni la conquista dell'isoletta. Il problema principale, come si è visto, fu la mancanza di adeguate informazioni sul terreno e sulle forze nemiche, si riteneva che i cubani fossero operai non qualificati, medici e maestri, mentre nella realtà ci si trovò di fronte a reparti combattenti molto ben addestrati, che diedero parecchio filo da torcere al Corpo di Spedizione finché un raid dei SEALs non fece piazza pulita del loro quartier generale, a Fort Frederick. Mancando l'adeguato coordinamento, le truppe sul campo sbandarono rapidamente, consentendo un più rapido raggiungimento degli obiettivi prefissati.

Altro problema fu la messa in sicurezza degli studenti americani, i cui alloggiamenti erano suddivisi fra TRE campus, e non due come si riteneva. Infine pesò, e molto, la assoluta mancanza di un sistema di comunicazione integrato fra le varie forze armate, in pratica ogni arma aveva il suo sistema di comunicazione, quello dei marines non interagiva con quello dell'esercito, e così le comunicazioni dovevano passare tramite Washington anziché direttamente sul campo fra i comandanti delle varie unità. Si racconta che un ufficiale della Delta, per ottenere uno Spectre, dovesse fare una collect call (chiamata a credito del destinario), a Fort Bragg, dal telefono pubblico di un bar dove era asserragliato coi suoi uomini, circondato dai cubani

Bernard Coard, arrestato dai militari americani, processato per l'organizzazione del colpo di stato, fu condannato all'ergastolo (pena che continua a scontare attualmente).

Grenada ha dichiarato il 25 Ottobre festa nazionale, chiamata Giorno del Ringraziamento (Thanksgiving Day, nulla a che vedere con l'equivalente americano, ovviamente). 


Le forze in campo:

22nd Marine Amphibious Unit 
82nd Airborne Division 
21nd Tactical Air Support Squadron 
1st Battalion (Ranger), 75th Infantry 
Navy SEALs: SEAL Team Five e SEAL Team SIX 
Delta Force 
160th SOAR (A)

Amphibious Squadron Four:

Portaelicotteri da assalto anfibio Guam (LPH9),
Navi trasporto carri Barnstable County (LST1179) e Manitowoc (LST1180),
Nave da sbarco Fort Snelling (LS30),
Nave da sbarco con bacino allagabile Trenton (LPD14)


Independence Task Group

Portaerei di squadra Independence (CV62),
Incrociatore classe Leahy Richmond K. Turner (CG20),
Cacciatorpediniere classe Farragut Coontz (DDG40),
Cacciatorpediniere classe Spruance Caron (DD970), Moosbrugger (DD980),
Fregata classe Oliver Hazard Perry Clifton Sprague (FFG16),
Nave trasporto munizioni Suribachi (AE21) utilizzata come nave comando, avendo a bordo l'Invasion Tactical Planning Group.






Inoltre, furono utilizzate per il blocco dell'isola, nel timore di invio di rinforzi da Cuba:

Portaerei di squadra America (CV66),
Aliscafo lanciamissili Aquila (PHM4), Taurus (PHM3)
Fregata classe Oliver Hazard Perry Aubrey Fitch (FFG34), Samuel Eliot Morison (FFG13)
Cacciatorpediniere classe Spraunce Briscoe (DD977),
Sottomarino nucleare classe Los Angeles Portsmouth (SSN707),
Nave recupero Recovery (ARS43),
Portaelicotteri da assalto anfibio classe Tarawa Saipan (LHA2),
Cacciatorpediniere classe Charles F Adams Sampson (DDG10),

Cruiser Costal Guard Chase (WHEC-718).



BIBLIOGRAFIA:
Ronald H. Cole, Operation Urgent Fury: The Planning and Execution of Joint Operations in Grenada 12 October - 2 November 1983 Joint History Office of the Chairman of the Joint Chiefs of Staff Washington, DC, 1997

Adkin, Mark, Urgent Fury: The Battle for Grenada: The Truth Behind the Largest U.S. Military Operation Since Vietnam , L Cooper, Londra, 1989


 

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6 luglio 2009 1 06 /07 /luglio /2009 19:09





Goose Green è il nome di un insediamento agricolo di 170 mila ettari, sorto verso la fine del XIX Secolo attorno a una fabbrica di sego. Dispone di una pista aeroportuale, e venne occupato dagli argentini fin dai primi giorni dell'invasione delle Falklands. I residenti inglesi, 114 persone di tutte le età, furono rinchiusi nella Community Hall, sorta di municipio locale.

Dopo la guerra molti si chiesero se l'attacco avesse avuto un senso. Goose Green si trovava molto a meridione della direttrice di marcia delle truppe inglesi, sbarcate a San Carlos una settimana prima, per raggiungere Port Stanley, e si trovava al di là di una strozzatura naturale, un istmo che divide East Falkland dalla Lafonia, che gli argentivi avrebbero difeso con facilità, in caso di attacco. Goose Green poteva essere isolata dal resto delle forze argentine senza la necessità di un attacco frontale.









Goose Green.

Ma i comandanti inglesi sul campo decisero che la semplice presenza di una forte guarnigione nemica a Goose Green era una spina sul fianco che bisognava togliersi prima che facesse male: gli argentini potevano lanciare un attacco contro la testa di ponte di San Carlos e ributtare a mare le truppe appena sbarcate, oppure tagliare in due le colonne in marcia verso Port Stanley. Molti storici attuali, puntano in realtà sulla decisione politica, più che tattica: avere una vittoria terrestre immediata dopo le pesanti perdite subite dalle forze navali, culminate pochi giorni prima nell'affondamento della portacontainer Atlantic Conveyor, che era andata persa con tutti gli elicotteri Chinook trasportati (tranne uno, in volo al momento dell'impatto dei missili Exocet), fatto che aveva costretto gli inglesi a rivedere la loro strategia di terra, forzando i soldati a marciare nella brughiera anziché venire eliportati sulla capitale, Port Stanley. In realtà pare che il comandate inglese sul campo, il brigadiere generale dei Royal Marines, Julian H. A. Thompson, fosse molto perplesso sull'utilità dell'azione, ma si dice anche che i parà scalpitassero per combattere. Un loro ufficiale avrebbe detto "Ho aspettato vent'anni per menar le mani e ora qualche fottuto Marine me lo vuole impedire".

Alla fine, comunque, l'attacco fu deciso e pianificato per il 25, ma l'ordine venne annullato all'ultimo momento, pare per le perplessità dello stato maggiore a Londra. Il 26 fu infine deciso che l'azione doveva aver luogo senza altre esitazioni, e quella stessa mattina, i parà lasciarono la loro base di Sussex Mountain, nei pressi di San Carlos, dove erano sbarcati il 21.


   

Parà in marcia. La copertina di Time.

 

Un momento degli scontri.




Le forze britanniche consistevano in tre compagnie di fucilieri, una compagnia supporto e una compagnia comando del 2nd Para, il secondo battaglione del Parachute Regiment, agli ordini del tenente colonnello Herbert "H" Jones. In tutto, circa 600 uomini.

Gli inglesi potevano contare anche su 3 obici da 105 con 960 proiettili del ventinovesimo Commando Regiment della Royal Artillery, oltre a un plotone dotato di missili anticarro Milan, su alcuni elicotteri Scout e su 3 Harriers dell'RAF, oltre che sulla fregata Arrow, che bombardò col suo pezzo da 114 mm le posizioni argentine.

A fronteggiarli c'era quella che gli argentini chiamavano pomposamente Task Force Mercedes: in pratica un reggimento di fanteria, il 12o (Regimento de Infanteria 12, RI12), agli ordini del tenente colonnello Italo Piaggi, rinforzato da una compagnia di simil-Ranger del 25o reggimento di fanteria (il suo comandante, il tenente colonnello Mohamed Ali Seineldin, la minoranza siriana è molto consistente nelle forze armate argentine, aveva sottoposto i suoi uomini, nei giorni precedenti, a un ciclo di addestramento particolarmente duro, gli aveva fatto adottare un basco verde e aveva cambiato nome al reparto, in via ufficiosa, in Reggimento "Speciale"), per un totale di circa 1200 uomini.

 

Uno scout inglese.


Gli argentini disponevano di quattro obici Oto Melara da 105 mm del quarto reggimento di artiglieria aeroportata. Alcuni Pucarà basati a Stanley fornivano supporto aereo, mentre, per la difesa antiaerea, si poteva contare su una batteria di 6 mitragliere da 20 mm Rheinmetall e due cannoncini Oerlikon da 35 mm, entrambi manovrati dagli uomini del 601o battaglione antiaereo dell'Aviazione.

Durante la notte del 27, otto uomini della compagnia C, 2nd Para, furono mandati in esplorazione. Sulla base del loro rapporto, Jones pianificò l'attacco, senza sapere che agli scouts erano sfuggite le trincee che gli argentini avevano scavato intorno alla collina di Darwin, un errore che sarebbe costato caro agli inglesi.

Alle 0230L, dopo che novanta minuti di bombardamento navale sulle postazioni argentine a Darwin, tenute da due plotoni di fucilieri e uno mortai del 12o Regimento de Infanteria, bombardamento che uccise 12 soldati, il 2nd Para partì all'attacco per catturare Goose Green "before breakfast", ma le cose non sarebbero andate come sperato.

Le truppe inglesi mossero a tenaglia alle due estremità della linea costiera, partendo dalle loro posizioni a ridosso dello stagno di Burntside, ma entrambe le colonne incontrarono forte opposizione, grazie soprattutto al tiro di artiglieria che si rivelò molto preciso. E i nidi di mitragliatrice sistemati nelle trincee sfuggite agli scouts inglesi, inchiodarono entrambe le colonne. È a questo punto, che, viste le proprie truppe bloccate dal fuoco argentino, a rischio di sbandare per la sorpresa, il tenente colonnello Jones decise di guidare personalmente un assalto contro le trincee, nel corso del quale fu ucciso assieme al suo aiutante di campo, capitano Wood, al comandante in seconda della compagnia A, capitano Dent, e al caporale Hardman. "H" Jones riceverà la Victoria Cross postuma.

 

1. British aircraft lost west of Goose Green - Harrier GR.3
2.
A Coy 2 Para occupied Burntside House
3.
B & D Coys 2 Para moved forward towards Boca House
4. A Coy
moved past Coronation Point
5.
B & D Coys came up against strongpoint at Boca House
6.
A Coy came up against main defences along Darwin Hill
.... to dawn

By midday - A Coy had taken and held Darwin Hill, and B and D Coy's had finally silenced Boca House

7. British aircraft lost west of Camilla Creek House - Scout (1155L)
8. Argentine aircraft lost on return to Stanley - Pucara (ca 1200L)


From midday ...
9. D
and C Coys headed towards Goose Green airfield
10.
B Coy circled around airfield to cut off Goose Green
11. Argentine aircraft lost near Goose Green Schoolhouse -  Aermacchi MB-339A and Pucara (both 1700L)
12.
Harrier GR3's hit Argentine AA positions
13.
Argentine helicopter-borne reinforcements continued to arrive





Alle 1030L la compagnia A fece un nuovo tentativo di attaccare le posizioni argentine, ma fu respinta. Un feroce corpo a corpo si accese attorno a un posto di osservazione dell'artiglieria argentina nei pressi di Boca House; vista l'impossibilità di tenere la posizione, l'ufficiale comandante argentino, tenente Roberto Estévez, primo plotone, compagnia C, RI25, ordinò ai suoi uomini di evacuare verso posizione più sicura, quindi rimase al suo posto da dove continuò a dirigere il tiro contro le truppe inglesi finché fu ucciso. Riceverà la Cruz de La Nación Argentina Al Heroico Valor En Combate alla memoria.

Passò oltre un'ora prima che gli inglesi facessero un nuovo tentativo. La compagnia A riprese ad avanzare ad est, mettendo a tacere le ultime sacche di resistenza nemiche, mentre sul fianco opposto, la compagnia B riuscì a prendere Boca Hill solo grazie all'appoggio degli Harriers. Alla fine, comunque, la collina di Darwin fu conquistata; la compagnia A rimase a presidiarla, mentre le compagnie C e D si avviarono verso la fabbrica di sego, dove la C cadde in un imboscata argentina che fu respinta dopo un'ora di combattimento, al prezzo di quattro morti fra i britannici, una ventina fra gli argentini, e altre decorazioni al valore dei caduti di entrambe le parti.




Royal Marine accanto un Pucarà abbattuto.

Bloccati dalla compagnia B a sud, dalla D a ovest e dalla C al nord, l'unica via di fuga per gli argentini era il mare, a est. Ma non avevano navi che li potessero reimbarcare, e così, mentre le compagnie Bravo e Juliet, 6th Royal Marines venivano eliportate a Darwin per rinforzare il 2nd Para, l'ufficiale che aveva temporaneamente rilevato "H" Jones al comando, mandò due prigionieri argentini presso le proprie linee a parlamentare la resa, che fu accettata dal colonndello Piaggi, perfettamente cosciente della situazione.

Alle 0830L del giorno successivo, 983 soldati argentini (un altro centinaio era stato catturato durante i combattimenti), oltre a 202 uomini dell'Aviazione in servizio presso il locale aeroporto, si consegnarono alle truppe inglesi, assieme a un impressionante quantitativo di armi, munizioni, combustibile e viveri, quasi tutto il materiale fu riutilizzato dai britannici essendo del medesimo tipo in dotazione alla NATO. Gli inglesi lamentarono 17 morti (18 secondo un’altra fonte) e 64 feriti, i caduti argentini oscillano, a seconda delle fonti, fra 50 e 200, sconosciuto il numero dei feriti, superiore a 200 comunque.




Materiale bellico argentino catturato dagli inglesi a Goose Green.



Il tenente colonnello Italo Piaggi, costretto alle dimissioni dopo la sconfitta, nel 1986 scriverà un libro, Ganso Verde, nel quale difenderà il suo operato e criticherà il comando di Port Stanley per non avergli fornito l'appoggio necessario contro gli inglesi.





   

A fianco, da sinistra verso destra: Cruz de La Nación Argentina Al Heroico Valor En Combate, South Atlantic Medal e nastrino di campagna britannici.



 

Monumento ai caduti inglesi a Goose Green. A destra: il tenente colonnello Italo Piaggi.



BIBLIOGRAFIA:

Freedman, Lawrence, The Official History of the Falklands Campaign, volume 1 e 2, Bantam Books, 2005
Middlebrok, Martin, The Falklands War, Penguin Classic Military History, 2001
McManners, Hugh, Forgotten Voices of the Falklands: The Real Story of the Falklands War in the Words of Those Who Were There , Random House, 2008
Piaggi, Italo, Ganso Verde, Sudamericana, 1989
Piaggi, Italo, El combate de Goose Green, Planeta, 1994



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6 luglio 2009 1 06 /07 /luglio /2009 18:50





Arido e inospitale (vi si registrano le più alte temperature dell’America Latina), il Gran Chaco è una porzione del Chaco Boreal, un’area vasta due volte l’Italia, addossata alle Ande e al confine fra gli attuali Paraguay, Bolivia e Argentina. È una steppa arida, simile ai deserti nordamericani dei film western, che, procedendo verso est, lascia il posto a foresta spesso molto fitta, costituita da macchie di quebracho e di erba elefante. Per molti anni, la sua economia è stata basata sull’allevamento del bestiame brado, e sul tannino estratto dal legno del quebracho per conciare le pelli. Eppure ha provocato la più sanguinosa guerra dell’America Latina.

In epoca coloniale, il Gran Chaco apparteneva alla medesima audiencia della Bolivia, e questa è la ragione per la quale La Paz, una volta ottenuta l’indipendenza da Madrid, non ha mai smesso di avanzare pretese sul territorio. Ma gli aristocratici criollos che per anni hanno guidato il Paese andino, così come gli indios Quecha dell’Altiplano, hanno niente in comune con gli indios Guarani del Chaco o coi coloni bianchi della zona. I boliviani non hanno mai vissuto nel Chaco, né hanno mai sfruttato le sue risorse. Così le pretese boliviane non andarono mai oltre qualche disputa diplomatica. Le cose si complicarono quando, nel 1884, la Bolivia, in seguito a una guerra col Cile, perse il suo accesso all’Oceano Pacifico. Oggi può sembrare incredibile, ma nella mentalità dell’epoca, l’accesso indipendente al mare era ritenuto indispensabile per un grande Paese, e la Bolivia, sentendosi erede diretta della grandeur inca, per quanto governata da un’aristocrazia spagnola con la puzza al naso, doveva riguadagnarlo. Vista l’impossibilità di spuntarla contro il Cile troppo forte, sul piano militare, La Paz si rivolse al Chaco, con l’intenzione di costruire un porto sul fiume Paraguay che la mettesse in diretto contatto con l’Atlantico. Le mire espansionistiche del Paese andino erano aiutate anche dal fatto che Asuncion aveva una sovranità più nominale che effettiva sul territorio, come si è visto praticamente disabitato e in larga parte affittato a latifondisti argentini per farvi pascolare il bestiame, con piccole comunità Mennonite impegnate a macchia di leopardo in stentate aziende agricole basate più che altro sullo sfruttamento del quebracho. Per anni, grazie anche alla mediazione dell’ex-Presidente Usa Rutheford B Hayes (molto stimato in America Latina) e del Re del Belgio, la querelle non era andata oltre la retorica nazionalista tipica dell’area e dell’epoca, c’erano stati diversi incidenti di frontiera, il più grave del quale avvenne il 25 Febbraio 1927, nel corso del quale fu ucciso un ufficiale paraguaiano, il tenente Rojas Silva, ma nulla di più.

 



La parte occidentale del Chaco, nei pressi della Cordigliera Andina.




La parte orientale del Chaco, dove la vegetazione si fa più fitta.


Un fatto venne però a mutare, nel 1928, i delicati equilibri dell’area: la scoperta del petrolio nella parte occidentale del Chaco. In realtà, l’Eldorado nero si rivelò una pia illusione, i giacimenti erano drasticamente inferiori alle aspettative e i problemi connessi all’estrazione troppo grandi per renderla competitiva (all’epoca, il petrolio costava l’equivalente attuale di un dollaro e quaranta il barile): qualcosa di simile è accaduto di recente con l’area caspica, per intenderci. Ma tanto bastò per incendiare le polveri.

I combattimenti ebbero inizio nel 1928, quando la Bolivia stabilì un avamposto sul fiume Paraguay, il cosiddetto Fortín Boquerón, per costruirvi un porto; le truppe inviate da Asuncion ebbero buon gioco nello spazzarlo via, dando così inizio a una serie di scontri di pattuglie che durarono alcuni mesi, finché la Società delle Nazioni non impose una tregua, che sarebbe durata, con qualche violazione da ambo le parti, per quattro anni. Poi, nel 1932, l'esercito boliviano al comando del presidente Daniel Salamanca attaccò una guarnigione presso il lago Pitiantuta. Le ostilità ripresero stavolta su larga scala, anche se con molte difficoltà dovute principalmente a motivi logistici: il clima ostile, paludi e foreste, assenza di strade, spesso anche di semplici tracciati nella savana, uniti alle grandi distanze da percorrere, resero il movimento delle truppe estremamente difficoltoso. Le malattie e la carenza di materiale fecero il resto, benché entrambi i belligeranti fossero determinati a combattere una guerra moderna nel senso che si dava allora al termine.




Albero di quebracho.

In un primo momento, La Paz ebbe dalla sua il vantaggio, particolarmente in aria: il Cuerpo de Aviación disponeva di una sessantina di aerei, fra i quali numerosi caccia, e diversi aerei da trasporto Junkers W.34 rapidamente convertiti in bombardieri con quattro bombe da 100 chili (due da duecento, secondo altre fonti). Il governo boliviano, inoltre, sfruttando le royalties sulle miniere di stagno e di rame, procedette a massicci acquisti di armi sul mercato inglese, soprattutto presso la Vickers, di cui era un cliente storico: carri 6-tonne, cingolette Carden-Lloyd Mk. VI, pezzi da montagna da 55 mm, mitragliatrici e caccia Vickers Type 143, acquistati in sei esemplari col nome Bolivian Scouts. Furono acquistati anche quattro Curtiss P-1 Hawks e nove Hawk II, oltre a nove assaltatori biposto Curtiss Falcon, capaci di portare ognuno quattro bombe da cinquanta libbre sotto le ali. Nel contempo, le truppe di terra furono fornire di adeguata protezione, ricevendo gli eccellenti SEMAG-Becker 20-mm in ragione di due per ogni divisione (in realtà un battaglione rinforzato).

Mentre la Bolivia poteva sperperare il denaro delle sue concessioni minerarie, il Paraguay si trovava a fare i conti con problemi economici apparentemente insormontabili: Paese povero, senza risorse minerarie, si era trovato particolarmente colpito dalla Grande Crisi. Le sue forze aeree potevano contare su diversi assaltatori Potez 25A.2 e su sette monoplani da caccia Wibault 73C.1: il Potez era essenzialmente un COIN, eccellente in questo compito, con un discreto carico bellico (200 chili), tuttavia assolutamente impossibilitato ad affrontare qualunque minaccia aerea, il secondo era stato ai suoi tempi un buon caccia, interamente metallico (una novità, negli anni Venti), ma ora assolutamente obsoleto. Come non bastasse, ad aggravare le cose, Asuncion ci aveva messo del suo, scegliendo un unico motore per entrambi i velivoli per economizzare sulla logistica. La scelta era caduta sul Lorraine-Dietrich 12Eb, un motore da 450 cavalli che si sarebbe rivelato pessimo, nel cima del Gran Chaco, rendendo quasi inutilizzabili gli aerei che lo montavano.



Cingoletta boliviana Carden-Lloyd nella boscaglia.



Obice boliviano trainato da cingoletta Carden-Lloyd.




Artiglieria, probabilmente boliviana, nello
scrub.



Curtiss Hawk II, in alto, e Vickers Type 143 Bolivian Scout.




In alto, Wibault 73C.1 Primera Escuadrilla de Caza, 2nd Lt. Juan Gonzales Doldan, Campo Grande, 1932; sotto: Potez 25A.2.

 
Vickers 6-tonne, con cannone da 47 mm.



Né le forze di terra erano in condizioni migliori: il Paraguay, fra l’altro, non disponeva di un esercito vero e proprio come la Bolivia, ma di una milizia formata su base volontaria, male armata e peggio addestrata: i primi scontri furono sostenuti più con machete e i forconi (e perfino pietre e bastoni) da contadini e vaqueros, che non con le armi, distribuite in ragione di un fucile Mauser ogni squadra di dieci uomini; se quegli scontri non si tramutarono in stragi fu solo per la migliore conoscenza del terreno che permetteva tattiche di guerriglia contro soldati andini disorientati dalla calura, oppressi dalla bassa quota e tormentati dagli insetti cui non erano abituati. Nei mesi che precedettero lo scoppio della guerra, il governo di Asuncion riuscì comunque a garantirsi un prestito segreto dall’Argentina, e una commissione civile rastrellò freneticamente le piazze europee in cerca di equipaggiamento. Ironicamente, ottennero in un certo senso risultati migliori dei loro più ricchi nemici: i boliviani sperperarono in cannoni e mitragliatrici pesanti assolutamente inutili nella boscaglia del Chaco, al contrario dei mortai Stokes-Brandt e dei fucili mitragliatori Madsen acquistati dai paraguaiani, che potevano oltretutto contare sulle munizioni fornite clandestinamente dagli argentini.

Altro errore commesso dai boliviani, fu l’eccessivo affidamento sui mercenari. In realtà, entrambi i Paesi li utilizzarono, gli aerei paraguaiani erano portati in combattimento da piloti russi (cechi e tedeschi, molti dei quali veterani della Grande Guerra, volavano la maggior parte dei velivoli boliviani), senza contare che una missione militare italiana curò l’addestramento delle forze di terra paraguaiane, ma mentre i boliviani facevano affidamento anche su alti ufficiali stranieri, il loro capo di stato maggiore, generale Hans Kundt, era un veterano tedesco della Grande Guerra, e su reparti di fanteria soprattutto cileni, i paraguaiani si avvalsero sempre e solamente di loro ufficiali, con buona conoscenza del terreno e, soprattutto, del fattore umano. Non si trattava di campesinos sprovveduti, come a prima vista si potrebbe pensare, molti di loro avevano combattuto con le truppe francesi durante la Prima Guerra Mondiale, facendo tesoro dell’esperienza. Il capo di stato maggiore paraguaiano, colonnello (poi generale, infine maresciallo) José Félix Estigarribia, seppe unire abilmente l’esperienza di quegli ufficiali con l’abilità delle loro truppe, il cui nerbo era costituito da indios Guarani, indisciplinati e apparentemente inadatti a una guerra moderna, ma profondi conoscitori del terreno; seppe sfruttare abilmente le scarse risorse umane e materiali, evitando gli assalti suicidi alle posizioni trincerate che aveva visto a Verdun pochi anni prima, ma sfruttando la conoscenza del terreno e l’armamento più idoneo, riuscì a praticare una guerra di movimento senza un fronte vero e proprio, una sorta di guerra di guerriglia che gli permise di infliggere perdite dolorose al nemico.




Mappa delle operazioni belliche.




Escadra de Caza "Los Indios", Paraguay, 1933.



Fortificazione da boscaglia del tipo usato con successo dai paraguaiani.



Uno Junkers boliviano mentre carica dei feriti.





Altri feriti in attesa di essere evacuati.





Caproni Ca.101.




Fiat Cr.20bis.



Un "fortino" del Chaco.





Nido di mitragliatrici nella giungla. Le tattiche paraguaiane si rivelarono particolarmente efficaci.

 

Soldati boliviani. Sotto: truppe paraguaiane.




Per contro, i comandi boliviani sembravano, nella descrizione di un cronista americano dell’epoca, inadatti anche a una battuta di caccia alla volpe: “si preoccupano più di sporcare le loro uniformi appena lavate che di combattere”, annotò. Gli ufficiali mancavano totalmente di senso tattico e di immaginazione, e il loro comandante Kundt, era, se possibile, anche peggiore di loro. Mentre era stato un ottimo comandante in tempo di pace, imponendo una disciplina di tipo prussiano in un esercito altrimenti carente da questo punto di vista, si rivelò un disastro totale come comandante sul campo, pur avendo combattuto sul fronte orientale durante la Grande Guerra. Sprecò migliaia di vite insistendo in inutili attacchi frontali contro posizioni trincerate, senza adeguata preparazione di artiglieria e copertura di fuoco automatico, le manovre diversive erano aliene dalla sua immaginazione, e riteneva la ricognizione aerea inutile, data la propensione degli aviatori a esagerare, a suo dire, i movimenti e le capacità del nemico. Curiosamente, gli ufficiali paraguaiani che avevano combattuto in Francia, padroneggiavano le tattiche tedesche che Kundt disdegnava. Estigarribia regolarmente insaccò le posizioni nemiche, isolandole nello scrub e costrindole alla resa: alla fine del conflitto, il Paraguay deteneva 30 mila prigionieri di guerra, contro i 3 mila della Bolivia. E i consiglieri militari russi, Belaieff ed Em, due generali bianchi fuggiti dopo la presa di potere dei bolscevichi, proposero di usare delle fortificazioni leggere nella boscaglia in funzione anti infiltrazione: costruite velocemente col legname del posto, dotate di mortai e mitragliatrici, circondate di filo spinato e di mine, avevano dato buoni risultati durante la guerra civile russa, e si rivelarono micidiali nella boscaglia del Chaco. Difficili da rilevare dall’alto e comunque poco sensibili agli attacchi aerei, interdirono efficacemente ai boliviani l’uso delle vie di comunicazione nella boscaglia.



  
Ansaldo CV.33, a fianco una Carden-Lloyd. Entrambe si rivelarono inutili nel Chaco.



La Guerra del Chaco fu, infatti, soprattutto una guerra di genieri: tracciare strade attraverso lo scrub, costruire fortificazioni, e, soprattutto, localizzare punti favorevoli alla trivellazione di pozzi artesiani, furono le attività che determinarono l’avanzamento delle operazioni belliche vere e proprie. Il territorio del Chaco era praticamente privo di acqua potabile, anche nei punti dove la vegetazione assumeva l’aspetto di una giungla impenetrabile. L’acqua indispensabile agli uomini doveva essere someggiata o trasportata con automezzi e la disponibilità di questi ultimi, o della benzina per muoverli, decideva ogni volta l’esito di un attacco o della resistenza a un attacco. Nessuno dei due belligeranti, nemmeno la relativamente ricca Bolivia, poteva affrontare l’acquisto di tutti i mezzi necessari, e l’attrito nel terreno impervio e totalmente privo di strade del Chaco, era piuttosto alto. La carenza di trasporti si fece sentire soprattutto per l’approvvigionamento di acqua, diverse unità boliviane furono costrette alla resa perché sorprese dai paraguaiani lontane dai pozzi e circondate nello scrub senza possibilità di rifornimenti. In questo tipo di guerra, l’equipaggiamento pesante si rivelò un investimento infruttuoso. I fitti cespugli spinosi dello scrub si dimostrarono troppo resistenti perfino per i cingolati, la fanteria doveva essere impiegata ad aprire la strada ai tank con machete, asce e picconi. Come non bastasse, i tanks oltretutto, dovevano muoversi con tutti i portelli aperti per le elevate temperature giornaliere (col sole a picco si superavano quasi sempre i 45 gradi all’ombra), finendo facilmente preda di qualsiasi imboscata a colpi di bombe a mano. La benzina era scarsa, e serviva quasi tutti agli autocarri che trasportavano l’acqua e riportavano i feriti e gli ammalati, spesso più i secondi dei primi data l’insalubrità dell’area.

Le forze aeree furono largamente sottoutilizzate, e, soprattutto, male utilizzate, particolarmente dai boliviani, che pure godettero di una superiorità aerea quasi totale fino ai giorni finali del conflitto. Come si è visto, la ricognizione aerea veniva largamente ignorata, così come lo fu l’interdizione del traffico nemico: se attaccate dal cielo, le lente colonne paraguaiane, spesso someggiate, avrebbero avuto vita difficile, ma, benché sorvolate in diverse occasioni, non accadde mai, così come non si fece mai nemmeno un tentativo di attaccare i ponti o i porti lungo il fiume Paraguay. Per contro, i comandanti boliviani si intestardirono a fare attaccare a volo radente i fortini costruiti a dozzine nello scrub, azioni che, oltre a rivelarsi infruttuose essendo relativamente semplice riparare strutture in legname, causarono pesanti perdite per il fuoco contraereo. Maggior successo ebbe il lancio di rifornimenti compiuto con trimotori Junkers, alle truppe boliviane circondate nel Chaco, ma i pochi aerei disponibili, mai più di quattro, potevano supplire solo qualche nastro di munizione o pochi bidoni di acqua, alle truppe intrappolate sotto il sole cocente in una landa totalmente priva di acqua potabile.

Anche il Paraguay non usò in maniera adeguata la sua forza aerea, benché i suoi caccia riuscirono a interdire abbastanza efficacemente i pochi aerei da trasporto del nemico. Ma i pur ottimi Potez vennero impiegati solo in caso di disperata necessità, temendo di perderli per il fuoco contraereo o la caccia. Anche qui ebbero più successo gli aviolanci di rifornimenti, che si rivelarono vitali durante la prima battaglia di Nanawa, nel Gennaio 1933, quando le strade allagate dalle piogge stagionali impedivano il rifornimento della guarnigione assediata dai boliviani.

Gli scontri aerei furono, invece, relativamente sporadici. La ricognizione e il supporto ravvicinato avevano la massima priorità su ogni cosa, non c’erano macchine né benzina da sprecare per l’intercettazione o la superiorità aerea. Oltre tutto, date la vastità dell’area e le relativamente poche macchine coinvolte nelle operazioni, i piloti di entrambe le parti non avevano vita facile nel cercare gli aeromobili nemici, né potevano intervenire su richiesta in caso di attacco, date le distanze dagli aeroporti e le difficoltà, vista la natura del terreno e delle comunicazioni, nel costruirne di avanzati.

Nel 1933, la situazione cominciò a cambiare. Grazie ai buoni uffici del governo argentino, Asuncion si assicurò l’assistenza di una missione militare italiana. Le forze aeree furono rapidamente riequipaggiate con 5 Fiat CR42bis e altrettanti Caproni Ca.101 da trasporto-bombardamento. Gli italiani fornirono inoltre diversi esemplari della cingoletta Ansaldo CV33, versione derivata, e migliorata, della Carden Lloyd, destinata, nelle aspettative degli strateghi del Duce, a rivoluzionare la guerra permettendo ai soldati di combattere da bordo del mezzo. In realtà, le Ansaldo ebbero impiego limitatissimo durante la guerra del Chaco, soffrivano dei medesimi difetti delle controparti boliviane, e la benzina era troppo preziosa per andare sprecata a quel modo, ogni goccia doveva finire nei serbatoi degli autocarri dei rifornimenti. Le armi italiane si rivelarono comunque preziose nella battaglia di Nanawa, la Verdun del Chaco, in realtà, come Verdun, diverse battaglie fra Gennaio e Luglio 1933. Forse l’unica mossa sensata dei boliviani nella guerra, Nanawa era in pratica la porta di Asuncion, se fosse caduta le truppe andine avrebbero conquistato la capitale nemica. La mossa sembrava a portata di mano per il generale Kundt, che confidava, oltre che nel numeri superiori, nel migliore equipaggiamento dei suoi uomini in una battaglia finalmente convenzionale. Quello che non sapeva era che l’esercito paraguaiano aveva appena ricevuto consistenti rifornimenti bellici italiani, fra i quali numerosi fucili anticarro, mine e lanciafiamme. Il risultato fu una serie di battaglie durante sei mesi, nel corso delle quali i boliviani persero fra i 4 e i 10 mila uomini senza riuscire a sfondare le difese.

Il Paraguay arrivò a penetrare il territorio boliviano catturando la fortezza di Villa Montes, nel sudest del Paese, fatto, questo, che infiammò l’opinione pubblica, spingendo alcuni politici a chiedere di marciare su La Paz, con la conseguenza di inasprire gli inetti militari boliviani, che si dichiararono pronti a schierare la Terza Armata (ne avevano già fatto massacrare due nel Chaco) per fermare l’invasione del sacro suolo nazionale. La guerra pareva destinata a protrarsi all’infinito.

Ma dietro le apparenze si celava una ben diversa realtà. Entrambi i Paesi erano esausti, sull’orlo del collasso. Le perdite ammontavano, ufficialmente, a 52397 caduti in azione (oltre a 4264 morti in prigionia e ad almeno 30000 morti per malattia, principalmente malaria, febbre gialla e dengue, contro la quale le truppe andine non avevano difese né preparazione) per la Bolivia, e ad almeno 36000 morti per il Paraguay, cifre enormi per Paesi che, alla vigilia della guerra, avevano rispettivamente 2150000 e 900000 abitanti. L’economia sostanzialmente agricola e latifondista del Paraguay, inoltre, necessitava della manodopera ora al fronte, mentre la Bolivia, benché più popolata, era anche oppressa dai debiti contratti per le spese militari. I due Paesi avevano bisogno della pace.

L’armistizio fu siglato il 14 Giugno 1935, e ratificato con la firma del cosiddetto Trattato del Chaco, a Buenos Ayres, il 23 Gennaio 1939. Entrambi i Paesi convennero di sottomettere le loro controversie a un arbitrato internazionale, che alla fine garantì al Paraguay il Chaco, lasciando come contentino alla Bolivia una piccola striscia di territorio paludoso e malarico che le permetteva di collegarsi al fiume Paraguay e di costruirvi un porto, cosa che non fu mai.

BIBLIOGRAFIA: Farcau, Bruce The Chaco War: Bolivia and Paraguay, 1932-1935 Praeger Publishers, 1996



Carro boliviano.

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6 luglio 2009 1 06 /07 /luglio /2009 18:41

Nell'estate del 1970, c'erano oltre 450 prigionieri di guerra americani detenuti nel Nord Vietnam, alcuni da più di sei anni, il più lungo periodo di cattività per qualsiasi POW americano. Per di più i rapporti dell’intelligence descrivevano condizioni di detenzione disumane per la fame, la carenza di assistenza medica e, soprattutto, le continue, sistematiche, brutali torture praticate al fine di estorcere dichiarazioni di condanna della politica americana nel Sudest asiatico. I prigionieri si trovavano sparpagliati in una costellazione di piccoli campi nella parte settentrionale del Nord Vietnam, fra Hanoi e i confini del Laos e della Cina.

Il raid a Son Tay fu un’operazione in tre fasi che iniziò il 10 Giugno 1970, quando il generale Earl G Wheeler, capo di Stato Maggiore del Pentagono, autorizzò un gruppo ristretto di lavoro, Polar Circle, a studiare la fattibilità di una incursione nel territorio nemico per soccorrere i prigionieri. Nel Maggio del 1970, le foto dei ricognitori rivelarono l'esistenza di due campi di prigionia a ovest di Hanoi: in quello di Son Tay, 40 chilometri lontano dalla capitale nordvietnamita, fu identificata una enorme K (nel codice dei piloti USAF "veniteci a prendere") disegnata nel terreno, mentre nell'altro campo, Ap Lo, cinquanta chilometri a ovest di Hanoi, le foto mostravano le lettere SAR (per Search and Rescue) disegnate col bucato dei prigionieri, e una freccia col numero 8, indicante la distanza gli uomini dovevano percorrere verso le risaie dove erano costretti a lavorare.




Le immagini raccolte dagli SR71 rivelarono che Son Tay era attivo: il campo era all'aperto, circondato da risaie, ma nelle vicinanze si trovavano la 12a Armata Nordvietnamita, forte di 12.000 uomini, un centro di addestramento dell'artiglieria, scuole militari, un deposito militare e diverse unità contraeree. A rendere le cose più difficili, la base aerea di Phuc Yen era lontana solo trenta chilometri. Sembrava fossero in corso dei lavori di ampliamento delle strutture probabilmente per ospitare altri prigionieri - e guardie.

Il campo vero e proprio era piuttosto piccolo e coperto alla visuale da alberi alti una decina di metri. C'erano solo una linea telefonica (aerea) ed elettrica. I POWs erano ristretti in quattro ampi edifici nel recinto principale, circondati da un muro alto due metri con tre torri di osservazione. Solo un elicottero avrebbe potuto prendere terra all'interno di quel recinto, gli altri avrebbero dovuto eseguire il touchdown al di fuori di esso. Il tempo complicava ulteriormente il problema, le piogge del monsone avrebbero impedito il raid fino ad autunno.

La National Security Agency monitorò per diversi mesi la difesa aerea dell'area utilizzando fra gli altri drones Buffalo Hunters per valutare i tempi di reazione e captare le frequenze di trasmissione da disturbare, mentre gli SR71 si occupavano della ricognizione fotografica. In Luglio, le foto mostrarono attività inferiore alle aspettative, che diventò decisamente nulla a partire dal 3 Ottobre. Mentre Dong Hoi, venticinque chilometri est di Son Tay, era in piena attività. Cosa stava succedendo? Forse i nordisti si erano accorti dell'attenzione americana per il campo e avevano spostato i prigionieri?

Nel frattempo era iniziata a seconda fase dell'operazione. L'8 Agosto 1970, l'ammiraglio Thomas H Moorer, nuovo JCS, designò il generale dell'Air Force LeRoy J Manor come responsabile dell’operazione, e il colonnello Arthur D "Bull" Simons come ufficiale esecutivo. La fase di pianificazione e addestramento della missione, denominata Ivory Coast, fu condotta all’interno della Eglin Air Force Base, Florida con uno staff di 27 uomini.




Ryan Firebee Buffalo Hunter, uno dei primi RPVs.

Simons reclutò 103 volontari fra il personale delle Special Forces (dizione che all’epoca riguardava i soli Green Berets) del Sesto e Settimo Gruppo di Fort Bragg, North Carolina, e mosse con essi verso Eglin. La squadra avrebbe operato sotto il vago titolo di Joint Contingency Task Group (JCTG).

Lo staff stabilì come parametri prioritari per la missione, notturna, tempo sereno, quarto di luna a 35 gradi sull'orizzonte e visibilità eccellente. Furono quindi identificate due finestre di missione: 21-25 Ottobre e 21-25 Novembre. Per l'addestramento fu montata a Eglin una copia in scala 1:1 del campo di Son Tay (che veniva smontata ogni giorno prima del sorgere del sole perché i satelliti spia sovietici non la rilevassero) e un plastico chiamato Barbara per familiarizzare con la struttura. I piloti volarono 1054 ore in 170 missioni di addestramento notturno.




Il generale Manor e il colonnello Simons si incontrarono col comandante della Task Force 77, Ammiraglio Frederick A Bardshar, per mettere a punto con la Marina una diversione che distraesse le forze comuniste durante il raid. Il 24 Settembre, Manor riferì al Segretario alla Difesa Melvin R Laird che il JCTG era pronto per la finestra di Ottobre, ma dopo un incontro alla Casa Bianca col consigliere per la sicurezza Henry A Kissinger, si decise di spostare la missione alla finestra successiva. Il ritardo, pur essendo potenzialmente compromettente per la sicurezza dell'operazione, permetteva tuttavia un maggiore addestramento, e una ulteriore ricognizione sul bersaglio. Fra il 10 e il 17 Novembre successivi, il JCTG mosse in Thailandia, dove cominciò a studiare la missione sul campo. Il tifone Patsy, di passagio in quel periodo, avrebbe causato maltempo per tutta la durata della finestra, ma le condizioni avrebbero potuto essere eccellenti il 20.



La Central Intelligence avvertì che a Son Tay non c'erano più prigionieri, erano stati spostati altrove, ma né i militari né i politici credettero alla Compagnia e il 18 Novembre, il Presidente Richard M Nixon approvò la missione. 56 uomini delle Special Forces vennero selezionati per il raid e raggiunsero la Udon Royal Thai Air Force Base, dalla quale sarebbero partiti. E solo a quel punto seppero esattamente cosa dovevano fare (fino a quel momento si erano addestrati "alla cieca")"Stiamo andando a soccorrere 70 prigionieri di guerra americani, forse più, detenuti in un campo in una località chiamata Son Tay", disse Simons. "Questo è il minimo che qualsiasi prigioniero di guerra americano abbia diritto ad aspettarsi dai suoi commilitoni. Il campo si trova 23 miglia a ovest di Hanoi".

Simons aveva ancora qualcosa da dire. "Andiamo a liberare prigionieri, non a diventarne. Se succede un casino, se sanno che stiamo arrivando, non c'è via di lasciare il Vietnam del Nord a meno che voi non vi siate fatti cucire un paio d'ali sulla schiena. Saremo dalla parte sbagliata del mondo per fare una ritirata strategica o anche solo per scappare a gambe levate. Se c'è una crepa nella sicurezza, non ce lo telefoneranno da Hanoi, lo scopriremo solo quando il secondo o il terzo elicottero saranno atterrati, solo allora ci faranno il culo. Se accade, dobbiamo restare uniti, attestarci sul Song Con (un fiume vicino il campo, nda) e lasciarli venire verso noi attraverso le maledette risaie. E fargli pagare caro ogni dannato metro che faranno per venirci a scannare".




Barbara.


I Green Berets, guidati da un team command and control denominato Gear Box, sarebbero stati organizzati in tre gruppi: Blueboy, con 14 uomini incaricati di assaltare la prigione; Greenleaf, 22 Green Berets guidati da Bull Simons che dovevano far saltare il muro di cinta del carcere e fornire fuoco di copertura agli uomini al suo interno, e Redwine, 20 uomini col compito di coprire i due precedenti gruppi da arrivi improvvisi di truppe comuniste dalla strada per Hanoi.

I 56 commandos avevano ciascuno in dotazione una radio, ed erano pesantemente armati: una pistola a testa, solitamente una versione speciale della .44 o della .357 Magnum, 48 Colt CAR15, 2 M16, 4 lanciagranate M79, 2 trench guns, 4 mitragliatrici M60, oltre a 15 mine Claymore, 11 cariche da demolizione, 213 bombe a mano e tutto il necessario per tagliare cavi, reticolati e abbattere porte.




105 velivoli di vario genere (59 Navy e 46 Air Force) parteciparono all’operazione, 29 dei quali ebbero un ruolo diretto nell'operazione. Vediamoli in dettaglio:

2 MC130 Combat Talon, radio call Cherry 01 e 02 del 7th SOS (1st SOW) come C3 (Gear Box volava su Cherry 01) e illuminazione
1 HC130P, radio call Lime 01 del 1st SOW come tanker per gli elicotteri
5 HH53 Super Jolly, radio call Apple 01-05, del 40th ARRS (3rd ARRG) per il trasporto
1 HH3 Jolly Green, radio call Banana 01, del 37th[sup] ARRS (3[sup]rd ARRG) come trasporto d'assalto
5 A1E Fatface, radio call Peach 01-05, del 1st SOS (56th SOW) per il CAS
10 F4E Phantom II, radio call Falcon 01-10, del 1st SOS (56th SOW) per MIG CAP
5 F105G Wild Weasel, radio call Firebird 01-05, del 6010th WWS (388th TFW), per la soppressione antiaerea





MC-130 Combat Talon.

Alle 2325L del 20 Novembre, gli elicotteri lasciarono la loro base in Thailandia e diressero verso l'obiettivo attraverso il territorio del Laos. Appena passata mezzanotte, gli A1 Sandies e i Combat Talons decollarono dalla Nakhon Phanom Royal Thai Air Force Base. Alle 0123L, mentre la piccola armada era ormai in vista del campo, la Navy lanciò un pesante attacco contro la città portuale di Haiphong: gli aerei, lanciati dalle portaerei Oriskany, Ranger, e Hancock scatenarono il caos necessario come diversione per il raid in corso.





Quasi niente andò per il verso giusto: Banana 01 del maggiore Herb Kalen ebbe problemi a prendere terra all'interno del campo col suo gruppo d'assalto Blueboy. Gli alberi che lo circondavano erano parecchio più alti dei 10 metri stimati, almeno trenta secondo il pilota. "Passammo attraverso quei figli di puttana come un gigantesco taglia erba, tutto vibrava, tenevamo le dita incrociate, ci siamo letteralmente schiantati al suolo", ricorda l'ufficiale. Apple 01, ai comandi del tenente colonnello Warner A Britton, aveva mancato il punto di atterraggio convenuto per evitare gli alberi troppo alti e per la mancata accensione di un bengala dei C130, ed era finito a ridosso di una struttura denominata Secondary School perché si credeva ospitasse i locali di una scuola di artiglieria. Con orrore, Simons e i suoi uomini scoprirono che non si trattava di una scuola, ma di una serie di baracche che brulicavano di soldati nemici: ed essi aprirono un fuoco d'inferno contro gli americani. Bull Simons si infilò nel parapiglia in un fosso dove trovò un soldato nordvietnamita in mutande, livido di paura. Lo abbattè con la sua .357 e proseguì. In pochi minuti i commandos uccisero 100, forse 200 nordvietnamiti facendo detonare contro le loro baracche le cariche da demolizione portate per abbattere il muro di cinta.















L'unico gruppo a non aver avuto problemi era Redwine, agli ordini del tenente colonnello Eliott P Sydnor: atterrato in perfetto orario alle 0220L sulla strada che portava ad Hanoi, aveva potuto eseguire senza interferenze i suoi compiti, tagliando i collegamenti fra il campo e il comando e piazzando un blocco stradale. Nel frattempo Blueboy, guidato dal capitano Richard J Meadows, assaltò il campo e cominciò a cercare le baracche cella per cella, solo per scoprire che erano vuote. Meadows avvertì via radio Simons del fatto, e ricevette ordine di evacuare. Alle 0236L il primo elicottero lasciò Son Tay, seguito da un secondo nove minuti dopo. Il raid era durato in tutto ventisette minuti, nessun soldato americano era caduto in azione, alcuni feriti non gravi e una gamba rotta nell'atterraggio fortunoso di Banana 01 furono tutti i danni riportati dalle Special Forces.





Un'illustrazione di Blueboy. In ginocchio, il capitano Meadows parla in un megafono rivolto ai prigionieri che si riteneva essere nelle baracche per tranquillizzarli



La battaglia era comunque infuriata aspra. Almeno 18 SA2 Guideline furono lanciati contro gli aerei e gli elicotteri americani, uno dei quali colpì un F105G il cui equipaggio dovette eiettarsi sul Laos e fu recuperato dagli elicotteri di ritorno da Son Tay.

Cos'era andato storto? Dov'erano finiti i prigionieri? Più tardi di scoprì che il 14 Luglio erano stato spostati a Dong Hoi, in una struttura denominata Camp Faith. E, non a causa di una crepa nella sicurezza, ma per un problema per così dire idrico: le rive del Song Con stavano cedendo e c'era il rischio che il fiume inondasse il campo. La legge di Murphy, tutto quello che può andare storto state sicuri che andrà storto, aveva colpito ancora.

Fu dunque il raid un fallimento? Secondo gli storici no. La forza di assalto prese il campo e raggiunse i suoi obiettivi. Nessun prigioniero fu soccorso, è vero, ma nessun soldato americano cadde nell'azione. Soprattutto l'operazione mandò un chiaro messaggio ad Hanoi, e quel messaggio diceva che gli americani sapevano del trattamento disumano e degradante cui erano sottoposti i loro prigionieri e che avrebbero fatto ogni sforzo per riportarli a casa. A Dong Hoi, venti chilometri a oriente di Son Tay, i prigionieri americani furono svegliati dal rumore dei combattimenti e capirono che il loro ex campo di prigionia era stato attaccato. Benché coscienti di aver perso il biglietto per tornare a casa, quegli uomini capirono che il loro Paese non li aveva abbandonati. Il loro morale andò alle stelle. E i nordvietnamiti recepirono il messaggio, forse agghiacciati anche dalla constatazione che truppe americane potevano operare indisturbate a così poca distanza dalla loro capitale.




Un F-105G Wild Weasel impiegato nell'operazione.

Il raid di Son Tay diede il via a piccoli ma importanti cambiamenti. Tutti i prigionieri americani furono concentrati ad Hanoi, uomini che avevano passato anni in solitudine si ritrovarono circondati di loro camerati. Il trattamento migliorò, la tortura non fu più praticata, fu addirittura ordinato alla milizia di proteggere i piloti americani abbattuti dai maltrattamenti da parte dei contadini, fu permesso di ricevere pacchi e corrispondenza da casa e scrivere a casa, come previsto dalla Convenzione di Ginevra.

Dal punto di vista dei prigionieri di guerra americani, il raid di Son Tay fu dunque un successo.




In volo per Son Tay. Notare il fucile a pompa in primo piano.





Redwine





Il capitano Richard J. Meadows.



Gli uomini di Kingpin:

Col Arthur D. "Bull" Simons, USA, Son Tay Raider
LTCOL Keith R. Grimes, U.S.A.F, Son Tay Planner
LTC Gerald Kilburn, USA, Son Tay Support Element
Col William Dave Burroughs, U.S.A.F. Son Tay POW
SSGT Earl D. Parks, U.S.A.F., Loadmaster, "Cherry 1"
LTCOL Richard S. Skeels, U.S.A.F., "Peach 3"
MSG David A. Lawhon, Jr., USA, Son Tay Raider
MAJ Richard "Dick" Meadows, USA, Son Tay Raider
Col John H. "Howie" Dunn, U.S.M.C., Son Tay POW
LTCOL William J. Starkey, U.S.A.F., "Firebird 3" - F-105
CWO4 John W. Frederick, U.S.M.C., Son Tay POW
CAPT Edward A. Brudno, U.S.A.F., Son Tay POW
LTCOL Charles P. McNeff, U.S.A.F., Navigator, "Lime 1"
TSGT Billy Joe Elliston, U.S.A.F., Loadmaster, "Cherry 2"
TSGT James M. Shepard, U.S.A.F., Loadmaster, "Cherry 1"
MSG Aaron L. Tolson, Jr., USA, Son Tay Support Element
Col Donald Kilgus, Firebird 5, F-105
SGT Marshell A. Thomas, USA, Son Tay Raider
Capt William M. McGeorge, U.S.A.F "Apple 5"
Maj Alfred C. Montrem, U.S.A.F., Co-pilot, "Apple 1"
TSGT Lawrence Wellington, U.S.A.F., Crew Member "Apple 4"
CSM Billy K. Moore, USA, Son Tay Raider
Col Richard (Dick) Dutton U.S.A.F., Son Tay POW
MSGT Harold W. Harvey, U.S.A.F., Pararescueman,"Apple 1"
Col Norman H. Frisbie, U.S.A.F., Chief Son Tay Planner
Col John Forrester, U.S.A.F., EWO, "Firebird 1," F-105
TSGT Leroy M. Wright, U.S.A.F., Flight Engineer, "Banana 1" HH-3
MSG Jesse A. Black, USA, Son Tay Planning Group
Col James V. Bailey, USA, Son Tay Planning Group
LTCOL Mel Bunn, U.S.A.F., "Peach 4"
Mr. Ben Schemmer, a great friend and supporter of the Son Tay Raid association
LTC Bill Robinson, USA, Son Tay Support Element
TSGT Paul E. Stierwalt, U.S.A.F., Radio Operator, "Cherry 2"
Lt Col Cecil M. Clark, U.S.A.F., Son Tay Planner
MSG William L. Tapley, USA, Son Tay Raider
SFC Bruce M. Hughes, USA, Son Tay Support Element
MAJ Harry L. Pannill, USAF, Copilot, "Cherry 2"
MSG Donald D. Blackard, USA, Son Tay Raider, "Redwine"
SGM Donald M. Davis, USA, Son Tay Raider, Feasibility Study Group
Col Warner A. Britton, U.S.A.F, Pilot, "Apple1"
SSGT Aron Paul Hodges, S.S.A.F, Flight Engineer, "Apple 1"
Lt. Col Russell E. Temperley, U.S.A.F., Son Tay POW
MAJ James "Bob" Gochnauer, U.S.A.F., Pilot, "Peach 2"
CSM Galen "Pappy" Kittleson, USA, Son Tay Raider "Blue Boy"
MSgt Gary T. Igo, USAF, Flight Engineer, EC-121, "Frog One"
MAJ Boyd F. Morris USA, Ivory Coast, Supply Officer
Col Irby David "Dave" Terrell, Jr. USAF, Son Tay POW
MSgt Leslie G. Tolman, USAF, Loadmaster, "Cherry 1"
CSM Marion S. Howell, USA, Son Tay Raider "Redwine"





Bull Simons festeggiato in patria.



BIBLIOGRAFIA:
Benjamin F. Schemmer The Raid (Harper & Rowe, 1976);
Jeffrey D.Glasser The Secret Vietnam War: The United States Air Force in Thailand, 1961­-1975 (McFarland & Company);
Dale Andradé Bring our POWs Back Alive Vietnam Magazine, Febbraio 1990;
John L. Plaster SOG - The Secret Wars of American Commandos in Vietnam (Simon & Schuster, 1997).







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29 maggio 2009 5 29 /05 /maggio /2009 20:37

“And now set Europe ablaze “, “ date l’Europa alle fiamme”, ordinò Winston Churchill a Hugh Dalton, capo della pianificazione bellica e primo responsabile dello Special Operation Executive, i cui uomini, in Inghilterra, sarebbero divenuti meglio noti come The Baker Street Irregulars. L’SOE fu organizzato per espresso desiderio del primo ministro britannico il 22 Luglio 1940 allo scopo di fomentare e appoggiare la resistenza al governo di Hitler nell’Europa occupata. E non ci fu episodio nella storia dell’opposizione  dell’Europa occupata dai tedeschi che non abbia corrisposto meglio ai desiderata di Churchill circa il “dare alle fiamme” della rivolta di Varsavia dell’Agosto 1944.

Da tempo era sorta clandestinamente in Polonia una Armata Nazionale, Armja Krajowa, o più semplicemente AK, cui si contrapponeva la Armja Ludowa, o AL, formata da elementi comunisti. Quando le forze sovietiche giunsero ai sobborghi di Varsavia sulla sponda orientale della Vistola, per ordine del governo in esilio a Londra, le formazioni di Varsavia della AK, agli ordine del generale Tadeusz Bor-Komorowski, iniziavano l'insurrezione, allo scopo di liberare la capitale polacca con le proprie forze, prima che venisse espugnata dalle divisioni sovietiche.

Essa mise Hitler di fronte a una serie crisi militare interna: rappresentò una sfida per altri popoli oppressi del suo impero a fare altrettanto; diede peso al messaggio che Churchill aveva ripetuto per tutta la guerra ai popoli d’Europa, che i vinti erano pronti a risollevarsi contro il tiranno al momento opportuno, dando impulso alla “guerra parallela” fatta di attentati e sabotaggi appoggiata dalle formazioni speciali dell’Esercito britannico e americano all’interno del continente occupato nel corso dei quasi cinque anni di guerra successivi.

O, almeno, così parve superficialmente. Dal punto di vista storico, occorre però anche ricordare che la rivolta di Varsavia, nonostante tutto il coraggio dimostrato e le sofferenze subire dall’esercito territoriale polacco in sette settimane di feroci combattimenti ― 10000 combattenti uccisi, e 200000 o forse addirittura 250000 civili che subirono la medesima sorte ― non fu una reazione spontanea alla brutalità dell’occupazione, e nemmeno, secondo una obiettiva valutazione, un grosso ostacolo per i nazisti nel mantenimento dell’ordine nel resto della Polonia, mente la Wermacht continuava a contrastare efficacemente l’Armata Rossa, che si era arrestata sulla rive della Vistola a corto di carburante e munizioni, essendosi le sue linee di rifornimento allungate troppo nelle ultime settimane. La sollevazione, venne al contrario effettuata prematuramente perché l’esercito territoriale aveva calcolato che la sconfitta tedesca in Bielorussia potesse offrire l’occasione irripetibile di occupare la capitale a nome del governo in esilio, prima che l’arrivo dei sovietici portasse all’instaurazione di un governo fantoccio controllato da Stalin. Questi calcoli però fallirono perché i sovietici non furono in grado di mantenere la pressione sui tedeschi e questi ultimi a loro volta trovarono i mezzi per combattere e, alla fine, sconfiggere gli insorti, senza dover impegnare le loro forze di prima linea.

Lontana dal dimostrare il contributo che una insurrezione avrebbe potuto dare alla caduta di Hitler, la rivolta di Varsavia dell’Agosto 1944 rappresentò solo un tremendo monito di quanto pericolosa poteva essere, anche in una fase tanto avanzata della guerra, la sollevazione in armi di uno qualsiasi dei popoli assoggettati al Reich millenario. E se quello di Varsavia non dovesse bastare, come prova, il concetto trova conferma nelle esperienze dei partigiani francesi in Giugno e di quelli cecoslovacchi in Luglio di quel medesimo anno.

In Francia, i maquis (ufficialmente Forces Françaises de l’Interieur) della zona di Grenoble alzarono la bandiera della rivolta sul massiccio del Vercors lo stesso giorno dello sbarco in Normandia, e da lì cominciarono ad attaccare le truppe tedesche in transito lungo la valle del Rodano. Nel giro di poche settimane, a Vercors si raccolsero migliaia di partigiani, in gran parte disertori dei centri di lavoro coatto. Il gruppo di Armate G, che si trovava esposto a questa tattica di colpi di spillo in tutto il suo settore di responsabilità, decise che era arrivato il momento di dare un esempio a tutti. L’altopiano fu circondato, Waffen SS arrivarono dal cielo con gli alianti, e, in cinque giorni di brutale repressione, fra il 18 e il 22 Luglio, massacrarono praticamente tutti. Su scala ridotta, ripeté quello che i reparti di sicurezza tedesca stavano facendo contro i ribelli slovacchi, nei pressi dell’allora confine sovietico. Hitler non dovette più preoccuparsi di queste sollevazioni, tranne l’insurrezione di Parigi che fu poco più di una farsa per blandire l’ego francese e comunque calcolata meticolosamente nei tempi e nei modi.

Quel che rese il massacro di Vercors ancora più scoraggiante per coloro che volevano dare alle fiamme l’Europa, è il fatto non secondario che esso era stato voluto, concordato e appoggiato in ogni modo dall’SOE: una delle sue squadre di collegamento, codificata Jedburgh, era stata paracadutata in appoggio ai maquis di Vercors, e aerei angloamericani lanciarono centinaia di tonnellate di armi e munizioni e rifornimenti di ogni genere (per settimane, i tedeschi mangiarono la cioccolata e fumarono le sigarette americane trovate sul Vercors). Tutto ciò si rivelò di nessuna utilità: benché guidati da un alto ufficiale francese, i partigiani furono massacrati fino all’ultimo uomo dalle Waffen SS.

Varsavia, il Vercors e la Slovacchia furono tre fallimenti estremamente costosi in termini di vite dei coraggiosi patrioti coinvolti, fallimenti che peraltro chiesero un pedaggio di vite tedesco assolutamente irrilevante ai fini bellici e devono essere considerati, a una valutazione obiettiva, assolutamente inutili e irrilevanti. Se questo rappresenta un verdetto equo della resistenza europea, qual è la spiegazione del suo insuccesso?

Alla base dell’errata valutazione di Churchill di quello che la resistenza poteva realizzare contro un regime tirannico, valutazione peraltro condivisa da migliaia di suoi concittadini e, più tardi, da migliaia di americani, c’era una completa incomprensione del ruolo della pubblica opinione nella politica di conquista. La storia della Gran Bretagna è permeata di conquiste e di resistenze alla conquista, durante la stessa vita di Churchill i confini dell’impero erano stati notevolmente ampliati con la forza militare, dall’Africa meridionale, occidentale e orientale, in Medio Oriente e nell’Asia sudorientale. Ma la marea dell’imperialismo britannico era sempre stata frenata da altri fattori: la continua influenza delle varie “leghe” antimperialiste, dal senso di equilibrio che era insito negli stessi amministratori britannici. Quando si trovarono di fronte alle atrocità dei Sepoys, gli inglesi vittoriani reagirono con una brutalità che non aveva niente da insegnare alle forze hitleriane, ma i loro successori furono allevati in una concezione più equilibrata, alla cui base stava il rispetto per le proprie convinzioni democratiche e la preoccupazione della buona opinione di altri popoli, soprattutto gli americani, che le condividevano. In seguito alle sue esperienze personali nella guerra boera, Churchill aveva compreso perfettamente fino a che punto potesse arrivare il desiderio di libertà e quanto difficile fosse, per una potenza occupante, imporre un governo straniero a un popolo convinto del proprio diritto all’indipendenza. Le convinzioni personali del premier, erano anche corroborate dalla cultura storica che possedeva, e che abbondava di esempi di successi della resistenza popolare ai dominatori stranieri, dai continentali contro Giorgio II d’Inghilterra e spagnoli e prussiani contro Napoleone.

È difficile immaginare una divergenza di vedute maggiore di quella esistente fra Churchill e Hitler in materia di concezione dell’impero. Churchill, pur essendo imperialista, credeva nella dignità dell’uomo, Hitler (come Stalin, peraltro), era convinto questa fosse solo una debolezza borghese. Chiunque avesse letto il Mein Kampf sapeva come Hitler negasse sprezzantemente a chiunque non appartenesse alla razza germanica il diritto ad autogovernarsi. Per motivi di opportunità, si trovò disposto a fare causa comune coi giapponesi e per vecchia fedeltà incluse Mussolini “discendente dei Cesari” e gli italiani nella confraternita germanica. Aveva anche un debole ideologico per i greci moderni, che identificava coi difensori delle Termopili contro le orde asiatiche (e che riconosceva, con ragione, come tenaci combattenti); gli scandinavi erano per lui cugini di razza, titolo che sognava fosse accettato anche da inglesi, olandesi e fiamminghi, ed era disposto a riconoscere pari dignità ai finlandesi e ai baltici. Inoltre, finché si batterono al suo fianco, rinunciò a bollare dal punto di vista razziale ungheresi, romeni, bulgari e slovacchi. Ma per il resto, per tutti gli altri popoli che nel 1941 erano sotto il suo dominio, provava solo disprezzo: essi appartenevano a quei gruppi, come i francesi, che erano stati “macchiati” dal giogo romano o alla congerie dei popoli slavi, il cui destino era quello di essere dominati da imperi superiori.

Di conseguenza, il Führer non era affatto toccato dalle riserve morali tanto evidenti nell’atteggiamento anglosassone nei confronti dell’impero. Era entusiasta della facilità con la quale aveva annientato Polonia, Cecoslovacchia e Iugoslavia, e misurava con un metro assolutamente di convenienza la correttezza dell’autorità con la quale aveva sostituirono i loro governi. Se la nuova autorità funzionava accollandosi tutte le responsabilità civili del Paese, dalla polizia alla distribuzione dei viveri all’organizzazione del lavoro e della vita sociale, era ben felice di lasciarla al suo posto. Così concesse ai danesi che il loro governo mantenesse tutti i diritti parlamentari (ancora nel 1943 vi furono elezioni democratiche che portarono a un Parlamento, a Copenaghen, formato al 97 per cento da patrioti), e lasciò che Pétain impersonasse l’apparenza, se non la sostanza di un capo di stato sovrano francese, anche dopo aver esteso anche al territorio di Vichy, nel Novembre 1942, l’occupazione militare tedesca.

La complessità dell’atteggiamento di Hitler per quanto riguarda l’occupazione, si ritrova nel variato tipo di resistenza opposta ai suoi regimi di occupazione, ma il tipo di resistenza non era solo determinato dalla natura del regime che Hitler aveva scelto di imporre su un determinato territorio occupato; c’erano in gioco altri fattori, uno di tipo politico (l’atteggiamento delle sinistre), uno militare (il tipo e il grado di assistenza fornito dagli inglesi, e, dopo il 1941, anche dagli americani), e un terzo geografico.

Il grado di successo di un qualsiasi movimento di resistenza all’occupazione nemica, viene determinato direttamente dalla difficoltà del terreno in cui opera, a patto che esso non sia troppo impervio per poter garantire il necessario rifornimento di materiale alle formazioni irregolari. Praticamente buona parte dell’Europa era o inadatta per ragioni geografiche, o troppo lontana dalle basi d’appoggio alleate per consentire un rifornimento rapido e continuo delle forze clandestine ivi operanti. La Danimarca, benché la resistenza morale all’occupante fosse fortissima, male si prestava all’attività partigiana, essendo piatta, quasi sprovvista di boschi  e fittamente popolata. Le stesse con dizioni si riscontravano in Olanda, nel Belgio e nella Francia settentrionale.

In queste zone l’attività clandestina veniva immediatamente individuata dalla polizia ― e in tutta Europa occupata le forze di polizia locali accettarono di lavorare sotto l’autorità e la direzione del conquistatore ― ed altrettanto immediatamente arrivava la punizione. La facilità con la quale si potevano effettuare rappresaglie, e la spietatezza minacciata ― e spesso attuata ― sia da parte tedesca che delle forze collaborazioniste, si dimostrarono un deterrente sufficiente per buona parte della guerra. Per di più il timore di rappresaglia ― una gamma che andava dall’imposizione del coprifuoco alla cattura di ostaggi e alla loro esecuzione sommaria ― incoraggiava le delazioni, che a loro volta facevano aumentare l’efficacia del controllo tedesco. La maggior parte delle organizzazioni di resistenza,m quando cominciarono a costituirsi, fu costretta a dedicare gran parte delle proprie energie alla lotta contro gli informatori ― e non sempre con pieno successo.

L’unica zona dell’Europa in cui il terreno era favorevole all’attività partigiana, era la Norvegia a nord di Oslo, ma lassù, la popolazione era talmente scarsa e la densità delle truppe di occupazione sufficientemente elevata, che tutte le attività di guerriglia dovettero essere organizzate dall’estero. Un’infiltrazione di elementi della resistenza norvegese dalla Scozia (che, nel Febbraio 1943 distrusse l’impianto di produzione dell’acqua pesante a Vermork, lasciando così praticamente senza sbocco il programma nucleare tedesco), appoggiata da azioni di commando britannici contro gli avamposti isolati tedeschi, ebbe solo l’effetto di indurre Berlino a rinforzare la guarnigione tedesca in Norvegia, ma la resistenza interna ebbe un’importanza strategica trascurabile.

Alcune regioni dell’Europa centrale e sudorientale erano, al contrario, favorevoli all’’attività partigiana, in particolare la regione carpatica e la Foresta Boema, buona parte della Iugoslavia, la zone montuose della a Grecia e delle sue isole principali come Creta e Rodi, le Alpi e gli Appennini in Italia.  Il governo cecoslovacco in esilio diresse una delle più efficienti reti di informatori dell’Europa occupata, tuttavia, l’assassinio di Reinhard Heydrich, nel Maggio 1942, provocò una rappresaglia talmente spaventosa (il massacro dell’intera popolazione dei villaggi di Lidice e Ležáky), che lo sforzo non venne ripetuto. Per la cronaca, gli assassini furono traditi da uno dei loro, Karel Čurda, che si presentò alla Gestapo non appena lanciato da un Halifax britannico.

In Grecia, i tedeschi reagirono con tanta spietata brutalità alle operazioni partigiane, che gli ufficiali di collegamento dell’SOE chiesero ufficialmente a Londra e al governo in esilio di sospendere ogni attività; gli unici che continuarono a commettere atti terroristici e sabotaggi, incuranti delle rappresaglie, furono i comunisti dell’ELAS, Ellinikos Laikos Apeleftherotikon Stratos. In Polonia, il governo in esilio si astenne da ogni attività fino al momento in cui scatenò l’insurrezione di Varsavia: anche se i polacchi avevano un servizio informativo secondo forse solo a quello cecoslovacco (uno dei suoi trionfi fu la fornitura agli angloamericani di parti delle bombe volanti V1 cadute dopo i lanci di prova), si decise dal primo momento che era meglio conservare le forze dell’esercito territoriale fino al momento in cui il crollo della Germania avrebbe consentito di uscire allo scoperto per riconquistare l’indipendenza, consci anche del fatto di avere poche armi a disposizione. Fino al 1944, l’SOE non aveva apparecchi dotati di autonomia sufficiente per raggiungere la Polonia centrale, e anche dopo aver ottenuto le basi nell’Italia meridionale nel 1943, i voli erano lunghissimi e pericolosi. E Mosca, che pure concedeva qualche volta agli apparecchi alleati la possibilità di rifornirsi in territorio sovietico nell’ambito dell’offensiva aerea strategica contro la Germania, si rifiutò sempre di farlo per le missioni di rifornimento dei patrioti polacchi.

Obiettivamente, bisogna riconoscere che il principale successo della resistenza nell’Europa occidentale, fu più spirituale che materiale,. Il simbolo più evidente della resistenza era la stampa clandestina (nella sola Olanda, nel 1941, circolavano 120 fogli diversi) e la più diffusa attività di trasmissione a Londra di informazioni tramite le reti clandestine, benché parecchie di esse fossero pesantemente infiltrate a ogni livello dai tedeschi e fornissero informazioni addomesticate. La pubblicazione dei giornali clandestini e la gestione delle reti di informazione, con altre attività sussidiarie come la messa in salvo degli equipaggi degli apparecchi abbattuti, qualche aiuto agli ebrei, sporadici atti di sabotaggio e pochi omicidi mirati (quasi sempre di collaborazionisti per non incorrere nelle spaventose rappresaglie naziste), diedero un bon contributo a risollevare l’onore nazionale durante gli anni dell’occupazione, ma nessuna di queste attività scosse il controllo tedesco, efficiente e poco costoso.

Gli storici della resistenza sono ovviamente restii a fornire i dati relativi alle forze di sicurezza tedesche ― il Sicherheitsdienst civile e la Feldgendarmerie, militare ― ma è probabile che il loro totale, in Francia, non abbia mai superato i 6500 elementi per tutta la durata del conflitto. La guarnigione di polizia tedesca di Lione, seconda città francese, nel 1943, contava in tutto 500 uomini. Le divisioni dell’esercito tedesco di stanza in Francia, 60 nel Giugno 1944, non parteciparono in alcun modo all’attività dei servizi di sicurezza, e dato che erano dislocate quasi esclusivamente nelle zone costiere, non  erano neanche in grado di farlo. Contro questi reparti, la resistenza schierò circa 100 mila uomini armati nel Luglio 1944, quando l’imminente arrivo delle truppe alleate aveva gonfiato gli effettivi. Durante tutta l’occupazione propriamente detta, il numero e la dimensione dei reparti partigiani fu scarsa, e la loro attività proporzionalmente limitata. Nei primi nove mesi del 1943, il totale degli ufficiali delle forze di sicurezza tedesca assassinati, fu di 150, gli atti di sabotaggio di un certo rilievo c-i-n-q-u-e.

Il concetto popolare di un’Europa occidentale “in fiamme” sotto l’occupazione tedesca, espresso per la prima volta da John Steinbeck nel suo romanzo La luna è tramontata (1942), e alimentato poi da altri autori, deve essere considerato di conseguenza un mito romantico, ancorché comprensibile. I paesaggi rurali e urbani dell’Europa occidentale, in cui la popolazione era tanto esposta alla rappresaglia, erano completamente inadatti all’attività insurrezionale, che solo a condizione di essere regolarmente rifornita e appoggiata da forze regolari esterne riesce a costringere il nemico a distogliere importanti risorse dal fronte vero e proprio. Durante l’intero corso della guerra, Hitler si trovò a dover affrontare una guerriglia di questo genere soltanto in due settori operativi: alle spalle del fronte russo, dove Stalin, dopo alcuni iniziali sbandamenti ed esitazioni, appoggiò rifornì di materiali e alla fine anche di ufficiali di collegamento e comando le formazioni irregolari annidate nelle impenetrabili paludi del Pripiet ― e la Iugoslavia.

Le formazioni partigiane sovietiche vennero inizialmente formate coi resti delle divisioni regolari isolate dall’avanzata tedesca in Bielorussia e ucraina nell’estate 1941, superstiti che conservavano la volontà, e spesso anche i mezzi, per continuare a combattere dopo essere rimasti tagliati fuori dall’Armata Rossa. Per il reclutamento, però, essi dipendevano dalle popolazioni locali, entrambe (soprattutto quella ucraina) sospette agli occhi del tiranno del Cremlino, in quanto minoranze inaffidabili che in larga parte stavano già collaborando con le autorità d’occupazione. Stalin, di conseguenza, creò le оргтройки (orgtrojki, cioè triumvirati organizzativi): le strutture di comando delle formazioni partigiane, inviate direttamente da Mosca, erano infiltrate attraverso le linee tedesche fino alle bande partigiane vere e proprie, ed erano formate da un terzetto di ufficiali rispettivamente dello Stato, del Partito, e del Commissariato del popolo per gli Affari Interni (NKVD). Per di più, fino all’estate del 1943, poco prima del ritorno delle formazioni partigiane sotto il controllo dell’Armata Rossa (Gennaio 1944), i loro effettivi, in Ucraina, non superarono mai i 17000 uomini; solo in seguito salirono, fino a raggiungere, alla vigilia dell’operazione Bagration, i 140000 effettivi che poterono eseguire 40000 attentati e atti di sabotaggio vari contro le linee ferroviarie. Ma a questo punto, siamo nell’estate del 1944, i reparti partigiani erano tornati sotto l’Armata Rossa, che provvide a rimpolparne gli effettivi.

Come risposta, i reparti speciali antipartigiani delle SS, aggregati ai reparti “a riposo” dopo l’avvicendamento dal fronte, eseguirono vasti rastrellamenti nelle zone considerate Bandengebiet, “terra di bande”, bruciando e uccidendo senza pietà comprese donne a bambini, spesso a migliaia. Le inchieste effettuate nel dopoguerra dagli storici che avevano accesso ai documenti tedeschi, dimostrarono che queste operazioni erano molto efficaci e che le valutazioni sovietiche dei successi dei partigiani erano state vistosamente esagerate, mentre le perdite effettivamente inflitte ai tedeschi, sia in uomini che in  materiali, erano da considerarsi ampiamente sovrastimate. Ad esempio, la cifra ufficiale sovietica di 147835 soldati tedeschi uccisi dai partigiani nella zona di Орёл (solitamente traslitterata Oryol, si pronuncia Ariòl) a sud-ovest di Mosca, va corretta, secondo J. A. Armstrong, a circa 35000 fra morti, feriti e dispersi. In realtà, è ormai assodato dall’analisi dei documenti resisi disponibili dopo il collasso dell’URSS, che i partigiani sovietici furono molto più attivi nel terrorizzare la popolazione civile delle aree sotto occupazione tedesca. Solo nel 1942 sono documentate le uccisioni di 148.715 cosiddetti collaboratori, spesso assieme alle loro famiglie, bambini compresi, altre migliaia di vittime furono provocate dalle rappresaglie tedesche seguenti gli attentati. Inoltre, i partigiani requisirono migliaia di tonnellate di derrate alimentari ai contadini, seppur in alcuni casi rilasciando una ricevuta che avrebbe permesso, a guerra ultimata, di essere risarciti. Come ricorda un ufficiale dell’NKVD di allora “Dovevamo ricordare al popolo che Hitler sarebbe passato,Stalin sarebbe rimasto”.

Di conseguenza, i sostenitori dell’efficacia della guerra partigiana devono parlare della Iugoslavia, che rappresenta,al di fuori di ogni dubbio, un caso speciale. Il suo terreno montagnoso, tagliato da profondo vallate e cinto da una costa facilmente accessibile agli uomini dell’SOE, rappresenta un terreno ideale per la guerriglia. la sua popolazione serba era abituata alla resistenza contro i turchi, e, dopo l’invasione austriaca del 1914-15, a battersi sul proprio territorio. L’aggressione nazista del 1941 aveva offeso l’orgoglio nazionale e per il suo carattere improvviso aveva lasciato migliaia di uomini in possesso di armi ed equipaggiamenti militari in zone impervie che fornirono le basi per le azioni contro gli invasori. I primi ad alzare la bandiera della rivolta, furono i monarchici serbi, comandati dal generale Dragonliub, “Cicia (zio)” Draja, Mihailovic: i suoi cetnici, così’ chiamati a ricordo dei serbi che si erano opposti in armi all’occupazione turca, si trovarono fin dal principio in contrasto con gli ustascia croati che avevano fatto causa comune con le forze italiane in Slovenia e Croazia. Erano anche comprensibilmente contrari alle appropriazioni territoriali ungheresi, bulgare, rumene e albanesi, ma la loro lotta era prevalentemente contro i tedeschi, che avevano imposto un governo fantoccio sul territorio storico della Serbia, e contro il quale diedero inizio, fin dal Maggio 1941, alla guerra partigiana.

L’SOE prese contatti coi cetnici nel Settembre 1941 e nell’estate successiva, 1942, cominciò a rifornirli di armi e denaro. Il capitano D. T. Hudson dell’SOE, tuttavia, nel corso della sua prima visita ai cetnici, era anche venuto in contatto con gruppi di guerriglieri antimonarchici guidati da un esperto agente del Comintern, Josip Broz, che aveva assunto il nome di battaglia Tito. Hudson si fece ben presto l’idea che Tito fosse, per i tedeschi, un avversario ben più serio e pericoloso di Mihailovic, il quale, secondo i suoi sospetti, mirava a trasformare i cetnici in un “esercito territoriale” sul modello polacco, e a conservare le forze fino al giorno in cui le circostanze esterne gli avrebbero permesso di liberare il Paese dall’interno. I suoi sospetti non erano fondati, in quanto i cetnici, in quel 1942, si stavano battendo coraggiosamente contro i tedeschi, e, in base alle decifrazioni Ultra, erano considerati ancora “fastidiosi” dai nazisti alla fine dell’anno successivo, 1943. Mihailovic era un acceso nazionalista serbo, e per tanto si rifiutava di collaborare con Tito alla costituzione di un movimento unitario di resistenza. Come risultato, gli uomini di Tito e di Zio Draja cominciarono a combattersi per il controllo della Serbia occidentale, e si arrivò da parte cetnica (ma pare anche titina) a stipulare brevi tregue locali con gli occupanti italiani per regolare i loro conti interni.

Uno dei principali motivi dell’atteggiamento di Mihailovic era quello di risparmiare alla popolazione civile le rappresaglie e le atrocità da parte degli occupanti, scopo perfettamente giustificabile date le spaventose conseguenze della guerra civile che si verificò comunque e che costò la vita al dieci per cento della popolazione prebellica (circa un milione e mezzo di morti). Tito non avanzava riserve del genere: nella classica tradizione della rivoluzione, impegnò a oltranza i partigiani contro gli occupanti, e, alla fine del 1943, si era dimostrato, agli occhi dell’SOE, la cui sezione iugoslava era dominata da ufficiali filo-comunisti, il più efficiente dei comandanti della guerriglia balcanica. Dalla primavera del 1944, i partigiani di Tito furono gli unici a godere degli aiuti inglesi, completamente sospesi ai cetnici, fatto, questo, che li spinse a concordare una tregua coi tedeschi, pur non sospendendo la collaborazione con gli americani dell’OSS, coi quali portò a compimento l’Operazione Halyard.

Nel frattempo, Tito aveva rafforzato il suo esercito partigiano e sferrava violenti attacchi contro i tedeschi nella parte centrale e meridionale del Paese, minacciando lo sfruttamento delle risorse minerarie locali, e, soprattutto, le importanti linee di comunicazione con la Grecia, costringendo le forze dell’Asse a un notevole sforzo di “bonificazione” delle aree di interesse strategico: le cosiddette “Sette Offensive Anti-Partigiane, l’ultima delle quali, l'Operazione Rösselsprungebbe tanto successo da costringere Tito a riparare a Bari (vi fu portato dal cacciatorpediniere inglese Blackmore), nonostante avesse potuto approfittare dei forti quantitativi di armi lasciate dagli italiani dopo l’armistizio dell’8 Settembre, che gli permise di portare i suoi effettivi a 150 mila.

La Royal Navy riportò comunque Tito in territorio iugoslavo, sia pure sull’isola di Lissa, ove l’SOE aveva costituito una base per appoggiare i partigiani, mentre, nel frattempo, la British Balkan Air Force, costituita in Giugno a Bari, continuava a rifornire i partigiani all’interno del Paese con costanti e cospicui aviolanci di armi, quasi sempre americane.

In Agosto, Tito lasciò Lissa per recarsi a visitare Stalin, fino a poco prima assai tiepido nei suoi confronti. In quest’occasione, Tito “autorizzò” le truppe sovietiche a entrare nel suo Paese, cosa che avvenne dal confine romeno il 6 Settembre successivo. L’arrivo dei sovietici, e la decisione, in Ottobre, di Hitler di evacuare la Grecia, trasformarono la posizione dei partigiani: il Gruppo di Armate F, preso sul fianco nei Balcani dall’Armata Rossa e minacciato lungo la costa adriatica dagli eserciti alleati di stanza in Italia, si affrettò a ripiegare verso la Iugoslavia centrale. Belgrado cadde il 20 Ottobre, per effetto di un attacco dell’Armata Rossa sovietica col contributo dei partigiani titini.

Mihailovic fece una fine tragica che, sicuramente, col senno del poi, non meritava. Dopo aver passato un anno alla macchia nelle montagne della Serbia centrale, fu catturato, processato e fucilato a Belgrado il 17 Luglio 1946. Il suo grido di discolpa, “volevo molto, ho cominciato molto, ma la tempesta della guerra ha spazzato via me e il mio lavoro”, è rimasto a epitaffio di un uomo che ebbe il solo errore di essere un nazionalista in uno stato di minoranze le cui divergenze Hitler seppe cinicamente sfruttare per dividere e comandare.

Col senno del poi, vengono anche notevolmente ridimensionati i successi di Tito, benché alla fine della guerra egli sia stato acclamato come l’unico capo della resistenza europea che fosse riuscito a liberare il proprio Paese. Molti gli attribuiscono tuttora il merito di avere distolto dai campi di battaglia del fronte orientale e del Mediterraneo truppe tedesche e satelliti e di avere influito materialmente sui risultati operativi della guerra. Più realisticamente, oggi si ritiene che la liberazione della Iugoslavia fu il risultato diretto dell’arrivo delle truppe sovietiche; quel che sembra sorprendente è che Stalin abbia acconsentito, tanto poco saggiamente (dal punto di vista sovietico) a ritirare le truppe dell’Armata Rossa dalla Iugoslavia nel Maggio 1945, un errore di valutazione che tolse peso, fin dal primo momento, al controllo sovietico nell’Europa centrale nel dopoguerra.

Dal punto di vista strategico, si ammette che c’è stata una esagerazione sul peso effettivo delle truppe che Hitler dovette distogliere dai teatri operativi principali per tenere a bada Tito. Il principale esercito di occupazione, in Iugoslavia, fu sempre quello italiano, presente, fino all’’8 Settembre con venti divisioni dislocate permanentemente in Iugoslavia e Albania (dove pure l’SOE appoggiava alcuni movimenti di guerriglia), a fianco di sei divisioni tedesche. Dopo lo scioglimento dei reparti italiani, i tedeschi dovettero inviare altre sette divisioni di rinforzo, e quattro l’esercito bulgaro, ma poche di esse erano adatto all’impiego sul fronte russo o italiano: una sola, la 1a Divisione da Montagna, richiamata dalla Russia nella primavera del 1943, era di prima categoria, le altre, comprese le SS Prinz Eugen e Handschar (croata), la 104, 107 e 118, erano composte da tedeschi etnici dell’Europa centrale o da minoranze non tedesche arruolate localmente, compresi grossi contingenti di musulmani bosniaci e albanesi, erano assolutamente inadatte alle operazioni contro formazioni meccanizzate quali quelle sovietiche o anglo-americane, la loro presenza in Iugoslavia e, addirittura, la loro esistenza, confermano quand’anche ve ne fosse ancora bisogno che i combattimenti in quel settore avevano più caratteristiche di guerra civile che internazionale.

In un certo senso, l’astuzia di Hitler di schierare serbi e croati nazionalisti e monarchici contro comunisti, si ritorse contro di lui, perché, nonostante il solo interesse tedesco verso il Paese fosse lo sfruttamento delle risorse minerarie e la protezione delle linee di comunicazione con l’Europa meridionale, finì per farsi coinvolgere nelle sue vertenze interne. E anche se, in termini strettamente militari, questo coinvolgimento gli costò molto poco, se si fosse preso la briga di costituire un governo pan-iugoslavo, incaricato di mantenere l’ordine all’interno della nazione dopo la sua travolgente viottoria dell’Aprile 1941, avrebbe semplificato molto i suoi accordi politico-militari, invece di corrompere cinicamente gli Stati confinanti con parti di territorio iugoslavo allo scopo di imporre una politica di occupazione che ben presto si dimostrò inefficiente.

Lo Special Operation Executive, anche se molto osannato da un potente gruppo di storici, alcuni dei quali erano stati suoi ufficiali, non ha potuto confermare la realtà di molte delle sue affermazioni, di avere contribuito in modo significativo alla sconfitta del nazismo, a causa dell’ambiguità dei suoi successi in Iugoslavia, suo principale teatro operativo, stesso giudizio che si può dare dell’OSS americano, costituito nel Giugno 1942.

Chiudiamo con la resistenza italiana per dire che anch’essa diede ben pochi problemi agli occupanti tedeschi, e praticamente nulla ne diedero quella ungherese, romena e bulgara (tutti ex-alleati tedeschi, per la cronaca).

Di conseguenza, bisogna riconoscere che l’offensiva “indiretta” incoraggiata a sostenuta dagli alleati anglo-americani contro Hitler, contribuì ben poco alla sua sconfitta: del suo esercito di 300 divisioni schierate in Europa alla data del 6 Giugno 1944, ultimo momento in cui aveva il controllo diretto sulla maggior parte del territorio conquistato fra il 1939 e la vigilia dell’attacco all’URSS, meno di venti possono essere riconosciute come impegnate nei compiti di sicurezza interna. Al di fuori della Serbia centrale, di zone della Russia occidentale e di piccole aree di ribellione sulle montagne della Grecia, dell’Albania, della Francia meridionale e dell’Italia settentrionale, tutte periferiche per quanto riguarda la condotta della guerra, l’Europa occupata rimase inerte sotto il suo giogo. L’”alba della liberazione”, promessa con tanto calore da Churchill, Roosevelt e dai vari governi in esilio, venne annunciata soltanto dal lampeggiare delle cannonate lungo i confini militari del Reich.

 

 

BIBLIOGRAFIA

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Asprey, Robert B. War in the Shadows: The Guerrilla in History, 1994.

Beckett, Ian F. W. Encyclopedia of Guerrilla Warfare, 1999.

Beckett, Ian F. W., Modern Insurgencies and Counter-Insurgencies: Guerrillas and Their Opponents since 1750

, 2001.

Joes, Anthony James. Guerrilla Warfare: A Historical, Biographical, and Bibliographical Sourcebook, 1996.

Keegan, John, The Second World War, 1988

Laqueur, Walter. Guerrilla Warfare: A Historical and Critical Study, 1997.



 





















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11 aprile 2009 6 11 /04 /aprile /2009 18:55

Inchon occupa una posizione di rilievo, nella storia americana: richiama una visione di genialità militare non appannata dal tempo, e non toccata da più recenti ricordi di una sconfitta asiatica. Inchon rimane un monumento all’improvvisazione e al rischio calcolato, ma, soprattutto, allo spirito di Douglas MacArthur: gli sbarchi dal mare del 15 Settembre 1950, sono stati il suo capolavoro, il suo colpo di genio insuperato, il perfetto epitaffio alla carriera di un uomo pieno di difetti e di complesse contraddizioni, ma che fu anche, e soprattutto, un geniale stratega e un audace improvvisatore.


Fin dalle prime fasi del conflitto, mentre quello che rimaneva delle truppe americane in Corea cercava di contenere l’aggressione comunista aggrappata al cosiddetto Perimetro di Pusan con la disperazione del naufrago che sa di morire se mollerà la presa sul relitto che lo sta sorreggendo, i pensieri di MacArthur erano fissi, quasi con una mistica convinzione, sulla possibilità di uno sbarco a Inchon. In Luglio, mentre studiava insieme la carta nel suo ufficio, disse al generale Lemuel Shepherd, comandante i Marines della flotta: “Se avessi la 1a Divisione  Marines farei uno sbarco qui (a Inchon, nda) e capovolgerei le sorti della guerra”. E con tutti gli espedienti e le improvvisazioni possibili e immaginabili, la 1a Divisione Marines venne effettivamente concentrata e trasferita d’urgenza  attraverso il Pacifico, ma lo sbarco di Inchon, già codificato da MacArthur come Operation Bluehearts e previsto per la fine di Luglio, fu rinviato e seguito da quasi due mesi di aspre discussioni e critiche feroci: da una parte i Joint Chiefs of Staff, tutti i principali ufficiali della Marina in Asia e una stragrande maggioranza di quelli dell’Esercito, dei Marines e delle operazioni anfibie che si dichiaravano contrari allo sbarco, dall’altra in pratica il solo MacArthur (il suo entourage, come riconosce anche un suo ammiratore sfrenato come William Manchester, era fatto in massima parte di sicofanti e paraninfi che non avrebbero mai osato contraddire quello che, in ultima analisi, era il loro pigmalione).

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Douglas MacArthur (1880-1964) in un dipinto a olio realizzato nel periodo dello sbarco a Inchon.





















Era il periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale, quando i gradi medi e superiori delle forze armate americane erano ancora pieni di ufficiali che avevano pianificato ed effettuato gli sbarchi nel Pacifico. Costoro conoscevano per esperienza ogni dettaglio delle maree, dei gradienti delle spiagge, la capacità di carico e la velocità di scarico delle piattaforme anfibie, la reale efficacia del fuoco di sostegno sia navale che aereo. La loro contrarietà all’operazione pensata da MacArthur non era buttata lì per puro spirito di contraddizione, ma ponderata sulle reali difficoltà che essa lasciava presagire.

Il colonnello Alpha Bowser, capo dell’ufficio operazioni e addestramento della 1a Divisione Marines, rimase allibito dal clima che vi trovò: “Non capivo come potessero essere tanto ottimisti riguardo quella cosa a Inchon”. Stessa opinione manifestò il tenente colonnello Ellis Williamson, ufficiale dell’esercito con lo stesso incarico di Bowser. “La mia impressione, francamente, era che quello sbarco si volesse farlo dalla parte sbagliata della Corea”. Ma MacArthur spiegò a entrambi: “Sarà come un ventilatore elettrico. Se si va alla parete e si stacca la spina il ventilatore si ferma. Quando noi saremo sbarcati a Inchon, ai nordisti non rimarranno che due scelte: arrendersi oppure ritirarsi”.

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MacArthur (al centro), fra il capo di Stato Maggiore dell'Esercito, generale J. Lawton Collins (a sinistra), e il Capo delle Operazioni Navali, l'ammiraglio Forrest Sherman.












Inchon, in realtà, era l’unico obiettivo plausibile per un accerchiamento anfibio. Kunsan, proposta dall’Esercito, era troppo vicina al Perimetro di Pusan, effettuare là lo sbarco non avrebbe avuto nessun significato se non quello di trovarsi addosso in poche ore la maggior parte delle forze comuniste impegnate nei combattimenti contro l’Ottava Armata. I Marines proponevano Posung-Myon, sulla costa occidentale a sud di Inchon ma la rete stradale intorno a quest’area offriva scarse possibilità di avanzata una volta superata la spiaggia.



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La situazione delle Nazioni Unite il 15 Settembre 1950.





















Inchon però faceva tremare i polsi anche ai veterani delle battaglie più dure del Pacifico. Tanto per cominciare aveva maree di dieci metri, fra le più alte del mondo: solo in tre date accettabili, il 15 e il 17 Settembre, e l’11 Ottobre, la marea sarebbe salita abbastanza da dare ai grossi mezzi da sbarco tre ore di agibilità, prima che tutto diventasse nuovamente un pantano insuperabile. Poi vi era la violenta corrente che batteva il canale di avvicinamento, in codice Flying Fish One. Era imminente la stagione dei tifoni, e le ripide colline retrostanti la spiaggia di invasione avrebbero permesso a un nemico esperto di battere la testa di ponte con effetti devastanti. Gli orari delle maree imponevano che gli attacchi principali avvenissero di sera, lasciando alle forze attaccanti soltanto due ore di luce per assicurare la testa di ponte a terra,in una città di 250 mila abitanti. E, infine, il porto era molto piccolo e circondato da alte dighe foranee per contrastare le maree: nelle parole di un ufficiale dello Stato Maggiore della Marina, l’allora comandante Arlie G. Capps, “quasi non ci credevamo, fate un elenco di tutte le difficoltà possibili e immaginabili a uno sbarco, geografiche, naturali e artificiali… be’, a Inchon le avevamo trovate tutte insieme”.

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 Chromite.



















Ma c’era dell’altro. Il ricordo di Anzio bruciava ancora nella mente dei militari, quando una manovra aggirante delle medesime proporzioni di quella ideata da MacArthur era arrivata a terra ―secondo una delle memorabili frasi di Churchill ― “non come un gatto selvatico a strappare il cuore al nemico, ma come una balena arenata a boccheggiare in agonia”: un esercito d’invasione assediato in un perimetro ristretto da un fuoco micidiale era un incubo che nessun alto ufficiale americano voleva far rivivere ai suoi uomini. Perché ora correre rischi tanto grandi, quando un impegno delle due divisioni disponibili nella sacca di Pusan avrebbe potuto consentire agli americani di sfondare l’accerchiamento in modo molto più convenzionale? Il generale Shepherd era contrario a Inchon, considerava i nordisti un avversario fanatico peggio dei giapponesi, capace di opporre una resistenza feroce agli americani come non era successo nemmeno a Okinawa nel 1945.

A opporsi a questi argomenti, MacArthur era solo. Anche lui ammetteva le difficoltà, soprattutto non gii sfuggiva la profonda demoralizzazione delle truppe delle Nazioni Unite agli ordini di Walker. Impegnare gli ultimi rinforzi disponibili, voleva dire rischiare tutto. MacArthur puntava a un risultato grandioso, raggiungere la libertà strategica con un gesto capace di vincere la guerra. Contro tutti i ragionamenti dei generali e degli ammiragli e degli ufficiali del suo stato maggiore, schierò la ferrea, mistica sicurezza del proprio istinto.


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Walton Harris "Bulldog" Walker (1889-1950), il difensore di Pusan. Morì in un incidente stradale poco dopo lo sbarco di Inchon.

























Nessuno dei presenti ha mai dimenticato la riunione conclusiva del 23 Agosto fra MacArthur e i più alti comandanti americani in Oriente,  Stratemeyer per l’Aviazione, Shepherd dei Marines, Struble,  Doyle e Turner Joy della Marina, oltre a tre generali inviati dal Pentagono per avere il quadro della situazione, Collins, Radford e Sherman. Collins espose chiaramente i dubbi dei Joint Chiefs circa le conseguenze derivanti dal ritiro della brigata di Marines dal Perimetro di Pusan per destinarla all’operazione anfibia, e suggerì uno sbarco più sicuro a Kunsan. L’ammiraglio Turner Joy ribadì le eccessive difficoltà di carattere nautico che ostacolavano lo sbarco, e concluse sinistramente: “Il meglio che posso dirvi, generale, è che Inchon non è proprio impossibile, ma ci assomiglia molto”.

A questo punto, MacArthur si alzò in piedi, fumando la pipa. Parlò col tono lento e risonante di un attore consumato. “Ho una profonda ammirazione per la Marina, fin dai giorni dell’umiliazione di Bataan. È stata la Marina a consentirci di vincere la guerra. Non ho mai pensato che sarebbe venuto il giorno in cui la Marina non sarebbe stata in grado di appoggiare l’Esercito nelle sue operazioni”.

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L'ammiraglio Arthur Dewey Strubble (1894-1983).






























Fu una grande recita, che non mancò di toccare la minaccia comunista in corso: “… è evidente che è qui in Asia che i cospiratori comunisti hanno deciso di fare la prima mossa per la conquista del mondo libero. La prova del fuoco non è a Berlino o a Vienna o a Trieste o a Londra, è qui, adesso, lungo il fiume Naktong”. Ricordò come il generale Wolfe (James Wolfe, 1727-59, fu un generale inglese che combatté in Canada contro i francesi nella Guerra dei Sette Anni) avesse dovuto superare le medesime perplessità e opposizioni quando propose l’attacco contro le posizioni francesi sulle colline di Quebec City, e sostenne che proprio l’assurdità del piano costituiva la garanzia migliore di vittoria: “Il comandante nemico penserà che nessuno sia tanto pazzo da aver voglia di fare una cosa simile”.

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Il controverso generale Edward Mallory "Ned" Almond (1892-1979.

















MacArthur concluse con la sua solita enfasi: “Mi par quasi di sentire il ticchettio della lancetta dei secondi del destino. Noi dobbiamo agire ora, altrimenti moriremo. Sbarcheremo a Inchon, e io li schiaccerò”. Dopo quarantacinque minuti di oratoria da palco di teatro, il viceré del Giappone tornò al suo posto. E il capo di stato maggiore della Marina si levò in piedi per dichiarare, con voce commossa: “Generale, la Marina vi porterà a Inchon”.


Non fu la fine del dibattito, molti dei presenti non erano convinti per nulla, ma fu il giro di boa. Shepherd e Sherman fecero un ultimo tentativo privato per convincere MacArthur a sbarcare a Posung-Myon, ma, in assenza di un no deciso da Washington, MacArthur proseguì per la sua strada. Il 28 Agosto il Pentagono diede il suo assenso formale allo sbarco a Inchon, seppure solo dopo aver ricevuto l’approvazione scritta del Presidente Truman, passo assolutamente non necessario a mai accaduto in precedenza, segno che rifletteva la loro precauzione a garantirsi di non essere i soli responsabili in caso di sconfitta.


Gli addetti alla pianificazione ebbero intanto la sgradevole sorpresa di scoprire che in cinque anni di occupazione militare americana della Corea del Sud, nessuno aveva pensato di raccogliere nemmeno gli elementi generali della geografia del Paese asiatico. Perfino le dimensioni del bacino di marea di Inchon erano sconosciute, si rimediò a questa e ad altre lacune ricorrendo alle vecchie mappe dell’Esercito e della Marina giapponesi. Agenti sudcoreani sbarcati nella zona di Inchon riferirono che a Wolmi-do, un’isoletta che dominava l’imboccatura del porto di Inchon e ad esso collegato da una diga foranea, c’erano soltanto 500 nordisti, e altri 1500 a Inchon, ma sarebbero bastate poche ore per fare affluire rinforzi. Tuttavia, avvertirono, l'isola di Wolmi-do disponeva di numerosi pezzi di artiglieria in bunker e ridotte fortificate che potevano essere un problema per lo sbarco.


Una formazione navale britannica fu incaricata di eseguire un diversivo, bombardando il porto di Pyongyang,  Chinnampo, e una fregata, sempre britannica, fece sbarcare degli incursori a Kunsan.

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Il generale Lemuel Cormick Shepherd jr, comandante dei Marines della flotta (1896-1990).






















L’8 Settembre, una squadra della CIA, in codice Trudy Jackson, fu sbarcata a Youngheung-do, poco più di uno scoglio all’imboccatura del porto di Inchon. Come ricorda il comandante della missione, Eugene F. Clark, i dati che riportò erano tutt’altro che confortanti, confermando i peggiori timori della Marina: il fango era alto fino al petto, con un basso fondale che si stendeva per oltre cinque chilometri al largo, e la diga foranea altissima avrebbe dovuto essere letteralmente scavalcata dai Marines per arrivare a terra. Clark raccolse anche altre preziose informazioni sulle maree, sulla direzione dei venti e delle correnti marine e sulla loro velocità, e sulle guarnigioni comuniste, soprattutto sulle ridotte fortificate di Walmi-do. Sorpreso da una pattuglia nordista, il gruppo della CIA dovette ritirarsi combattendo senza subire perdite, ma infliggendone di pesanti al nemico, che successivamente si vendicò trucidando fra i 50 e i 200 civili inermi per l’aiuto fornito agli americani.

Il tenente colonnello Robert Taplett, che comandava il III Battaglione del 5° Marines, ricorda di aver ricevuto un messaggio dal comando in cui gli si diceva che avrebbe dovuto tenere la testa di ponte, una volta sbarcato, fino a che non avesse subito l’82,3 per cento di perdite. Racconta: “Cristo”, pensai, “ma chi sarà mai stato il fottuto idiota che ha messo il decimale a un dato simile?”.

L’atmosfera di apprensione in cui lo sbarco fu preparato,dimostra quanto basso fosse sceso il morale delle forze americane in Corea, e quanto grande fosse stato il dominio psicologico che il nemico aveva ottenuto sui loro comandanti dopo l’aggressione a sorpresa di Giugno, fatta eccezione per il solo MacArthur. La violenza dei continui attacchi nordisti contro il Perimetro di Pusan, mascherava l’enormità delle perdite subite dai comunisti fin dall’inizio della guerra, facendo sopravvalutare enormemente all’intelligence la consistenza delle forze che premevano sulla ridotta americana. Lo stato maggiore credeva che gli aggressori comunisti avessero una superiorità numerica schiacciante, si pensava addirittura 1 a 4, mentre nella realtà, i malconci reggimenti di Kim Il-sung potevano schierare ormai a malapena 70 mila uomini contro i complessivi 140 mila assediati. Gli alleati avevano inoltre il dominio assoluto dell’aria e del mare, e una schiacciante superiorità di fuoco. La ferocia e l’efficienza delle truppe d’assalto nemiche non deve mascherare le enormi difficoltà in cui operavano i comunisti, privi di appoggio logistico e tecnico moderno. Il loro servizio di informazioni,inoltre, era altamente inefficiente, almeno quanto la mancanza di segretezza dell’Esercito americano. L’intenzione di sbarcare a Inchon fu uno dei segreti peggio mantenuti della guerra e argomento di discussioni aperte fra migliaia di uomini in Giappone e Corea. Eppure,miracolosamente, nemmeno una parola in proposito arrivò alle orecchie dei comunisti, e neppure un soldato venne spostato per rinforzare le difese negli ultimi critici giorni prima che la flotta d’invasione prendesse il mare.


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Un carro Pershing M26. A destra, F4U Corsair.

Fra gli assediati nel Perimetro di Pusan, e, soprattutto, fra gli ufficiali dello Stato Maggiore dell’Ottava Armata, continuava a prevalere il pessimismo, sia in merito alla loro situazione, che in rapporto al previsto sbarco a Inchon,. E il fatto che MacArthur ne fosse al corrente, sicuramente contribuì a fargli nominare comandante del contingente di sbarco, con la nuova denominazione di X Corpo, il suo capo di Stato Maggiore, generale Edward M. Almond. Questa decisione di dividere l’autorità militare in Corea fra due comandi separati, avrebbe avuto in futuro importanti e sgradevoli conseguenze, e comportò tali e pesanti critiche all’operato di MacArthur che vale la pena di parlarne in dettaglio.


La ragione più ovvia, e meno ammirevole, che spinse MacArthur a nominare Almond a capo del X Corpo, era che si trattava di un suo pupillo, un soldato molto ambizioso che era stato però un mediocre comandante di divisione sul fronte italiano e che ora aspirava a un comando in campo più promettente per riscattarsi del passato inglorioso. Almond non ispirava molto entusiasmo fra i suoi subordinati: il, generale Oliver P. Smith, comandante la 1a Divisione Marines, le cui cattive relazioni col suo diretto superiore avrebbero seriamente compromesso la campagna successiva, se lo ritrovò contro fin da prima dello sbarco, quando liquidò le difficoltà delle operazioni anfibie come un gioco da bambini. La spocchia di Almond e il vezzo di chiamarlo “figliolo”, indisponevano oltre modo l’ufficiale dei Marines.


Esisteva però un’altra ragione meno personale e più professionale per affidare le operazioni di sbarco a mani diverse da quelle del generale Walton “Bulldog” Walker: MacArthur conosceva bene quanto fosse basso il morale al comando dell’Ottava Armata, e questo lo aveva posto in un difficile dilemma. Walker aveva difeso tenacemente Pusan, ma c’erano anche grossi dubbi sulla sua capacità a dirigere ora le operazioni dinamiche e ricche di immaginazione che erano caratteristiche di MacArthur, che aveva pensato, in un primo momento, di destituirlo dal comando, rinunciando poi quando si rese conto che si sarebbe trattato di un gesto quanto mai sgradito all’opinione pubblica in patria.

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Il generale Oliver Prince "Ollie" Smith (1893-1977), comandante la 1a Divisione Marines. 





















Come spesso accade in situazioni disperate, “Bulldog” Walker era stato elevato a eroe nazionale, ma non aveva sicuramente le doti necessarie a condurre in porto lo sbarco di Inchon. Almond, per contro, e quali che fossero i suoi difetti, era comunque in grado di trascinare i suoi uomini all’azione con l’entusiasmo di un liceale, e MacArthur riteneva quella dote indispensabile in chi doveva comandare le truppe a Inchon. Riuscito lo sbarco, non sarebbe stato più importante chi fosse a comandare.


Fra gli ufficiali superiori dei Marines non ci fu mai un solo attimo di incertezza sull’importanza dello sbarco, non solo per la guerra, ma anche per la sopravvivenza del Corpo, che era stato costretto a una spietata riduzione degli organici dopo la fine della guerra ed era ormai ridotto all’ombra della potenza che aveva avuto solo cinque anni prima al punto che era opinione diffusa che nel volgere di un altro lustro, i Marines sarebbero stati confinati a fornire solo contingenti simbolici alle unità della Flotta. L’anno prima, il segretario alla Difesa, Louis A. Johnson, aveva dichiarato, durante una discussione al Congresso tesa a ottenere fondi per il bombardiere B36, che nell’era nucleare non vi sarebbe più stata necessità di operazioni anfibie.  Come conseguenza, Johnson si diede attivamente da fare per eliminare definitivamente il Corpo dei Marines, che era già stato decimato dai tagli di bilancio seguiti al termine della Seconda Guerra Mondiale. “Il Corpo si batteva per la sua stessa esistenza”, disse il generale Shepherd. In Corea, e, soprattutto a Inchon, lui e i suoi fanti da sbarco intravidero una suprema occasione per dimostrare alla nazione quello che il Corpo era ancora in grado di fare.

 

 


Il 10 Settembre, aerei dell’USAF e della Navy cominciarono a colpire Wolmi-do. Almond si era opposto con tenacia all’attacco, che avrebbe sacrificato la sorpresa dell’azione, ma i Marines erano stati altrettanto inamovibili: non si poteva affrontare la spiaggia principale con alle spalle quell’isolotto pieno di nord coreani armati fino ai denti nei bunker e nelle caverne scoperti dalla missione Trudy Jackson, e dalle quali potevano battere coi loro pezzi d’artiglieria e mitragliatrici le spiagge di invasione principali. E la spuntarono loro. Presto, agli aerei si aggiunsero le navi, che avrebbero martellato l’isola per cinque giorni e cinque notti. Attacchi diversivi di uguale ampiezza e durezza furono lanciati contro i porti di Kunsan, Posung-Myon e  Chinnampo, cosa che disorientò notevolmente i comunisti sul reale punto di sbarco americano. Va anche detto che i comandanti locali, a Inchon, apparivano comunque sicuri di essere in grado di respingere lo sbarco, e forse quella è la ragione per la quale non chiesero rinforzi.

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La rotta della flotta d'invasione. A destra, Robert Donald Taplett (1918-2004), all'epoca comandante di battaglione dei Marines.







 

Il primo convoglio della flotta d’invasione, 260 unità agli ordini dell’ammiraglio Struble, salpò da Yokohama il 5 Settembre. Era una flotta da trasporto improvvisata e raccogliticcia, quella che portò gli americani a Inchon: delle navi maggiori, 37  LST che avevano operato durante la Seconda Guerra Mondiale, erano state poi cedute alla marina mercantile giapponese ed ora erano state richiamate in servizio coi loro ufficiali giapponesi affiancati da personale americano arrivato in volo dagli Stati Uniti. Alcune di esse puzzavano incredibilmente di pesce, la manutenzione era approssimativa al punto che quasi tutte soffrirono di continue avarie riparate con fantasia e spirito di adattamento dal personale americano.


Pochi trovarono gradevole il viaggio verso Inchon, stipati come pesci in barile dentro vecchie navi prive di qualsiasi servizio essenziale. A quello si aggiunse il tifone Krizia, coi suoi venti a oltre duecento chilometri all’ora che devastarono gli stomaci e i nervi dei 70 mila soldati americani stipati sottocoperta. Su alcune unità, diversi veicoli strapparono gli attacchi di sicurezza e fecero parecchi danni spostandosi col rollare delle navi nella tempesta prima che si riuscisse a bloccarli.

Salvo il personale impegnato a costruire le scalette di legno necessarie a superare le dighe foranee, gli uomini restarono distesi nelle cuccette o giocarono a carte tutto il tempo, avendo ben poco altro da fare. I piani erano completi. Il convoglio doveva mantenere il silenzio radio, ma Almond pretese che ogni giorno gli venissero lanciati da un aereo i dispacci. Pare che perfino MacArthur ne fosse contrariato. Alle prime ore del 13 Settembre, la nave comando dell’armada, la Mount McKinley, salpò dal porto di Sasebo con MacArthur a bordo; avrebbe raggiunto lo stretto di Inhon assieme alle altre navi del convoglio, due giorni dopo, il 15, proprio mentre iniziava l’attacco a Wolmi-do.


Carrying-scaling-ladders-.jpgTroops-of-the-31st-Infantry-Regiment-lan

 

 

 Due momenti dello sbarco. Notare, a sinistra, le scale per salire sulle dighe foranee.






Il contingente d’attacco era costituito dal 3° Battaglione del 5° Reggimento del Corpo, accompagnato da sei carri M26 Pershing, più altri due M26 apripista e un nono lanciafiamme. Alle 0630L presero terra nella parte settentrionale dell’isola, in un punto designato Green Beach. Un blocco stradale posto dai nordcoreani all’imboccatura della diga foranea, fu rapidamente spazzato via dagli M26, e alle 0655L la bandiera fu issata a Radio Hill, un’altura di un centinaio di metri dalla quale si dominava il porto di Inchon. Nel giro di un’ora l’intera isola era occupata, anche se la messa totale in sicurezza dell’area richiese fino a mezzogiorno, al prezzo di 14 morti fra i Marines e almeno 200 fra i nordcoreani, appartenenti in massima parte al 918° Reggimento di Artiglieria. Un numero imprecisato di soldati del 226° Reggimento di Fanteria di Marina furono sepolti vivi dai carri apripista all’interno delle caverne dove si erano arroccati in difesa e dalle quali si rifiutavano di uscire per arrendersi. Altri 200 nordcoreani furono comunque catturati nelle ore successive.




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Per tutto il viaggio di trasferimento dal Giappone, MacArthur era rimasto chiuso nella sua cabina. Soltanto mentre i primi leather necks scendevano nei mezzi da sbarco usando le reti antisiluro come scalette di corda improvvisate, sotto il rimbombo continuo e cadenzato dei pezzi da cinque e da otto pollici dei caccia e degli incrociatori, il comandante in capo si presentò in plancia in tutto il suo splendore. Quella era la sua creazione, la sua ora, il suo ultimo grandioso momento di gloria marziale prima che il tarlo della delusione, del disappunto, della sconfitta, cominciasse a distruggere il suo infinito ego e la sua altrettanto grande reputazione. Si installò nella poltrona del comandante, affiancato dai suoi reverenti cortigiani, con tutti i suoi attributi di maestà: la pipa, l’enorme berretto con la visiera stracarica di fregi dorati, il mento superbo e gli occhiali da sole. E fu lì che i fotografi lo immortalarono per i posteri, come il condottiero alto sul mare, a osservare lo svolgimento del suo ultimo trionfo. E il suo primo atto, vista la bandiera apparire sulla sommità del Colle della Radio di Wolmi-do, fu di far trasmettere a Struble, in chiaro, tramite segnalazione ottica “La Marina e i Marines non hanno mai avuto luce migliore di quella di stamattina”.



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MacArthur osserva le operazioni dalla Mount McKinley.


















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A mezzogiorno, quando la metà del piano operativo era stato svolto con successo e dalla spiaggia si reagiva con un fuoco soltanto sporadico, cominciò il lungo intervallo prima del gran finale. Mentre la marea di ritirava scoprendo chilometri e chilometri di fango tra la flotta d’invasione e la riva, i soldati sulle navi attendevano, impotenti, che il mare tornasse. A Walmi-do, completamente isolati dalla flotta, i Marines attendevano accanto alle loro armi, augurandosi che il nemico non contrattaccasse. Chiesero, ma la risposta fu negativa, di proseguire l’avanzata lungo la massicciata della diga foranea verso la città, quindi si limitarono a battere, con le mitragliatrici e i mortai, la spiaggia non appena vi notavano attività. I Corsairs della flotta si spingevano per chilometri nell’interno, mitragliando e spezzonando a bassa quota tutto quello che vedevano muoversi, pronti a contrastare qualsiasi tentativo comunista di inviare rinforzi verso la zona d’invasione. Pure, stranamente, nessuno si mosse. Alle 1430L, gli incrociatori ripresero a martellare Inchon.

Alle 1645L il primo mezzo da sbarco si staccò dai trasporti carico di Marines, diretto verso il profilo coperto di fumo della città di Inchon. L’operazione fu quanto mai improvvisata: il maggiore Ed Simmonds, veterano del Pacifico dove ogni operazione anfibia era provata e riprovata e calcolata nei minimi dettagli, e che ora comandava la compagnia di rincalzo (armi d’accompagnamento) del III Battaglione, 1° Marines, ricorda di aver provato un senso di nausea e di vertigine quando un tenente di vascello gli indicò la spiaggia lontana, al momento di salire sul cingolato anfibio, e gli gridò: “Non so dove, ma da qualche parte laggiù c’è la sua spiaggia, vada a cercarla e se la prenda. Ah, questi sono i suoi interpreti” e gli consegnò due sorridenti  contadini coreani che, scoprì una volta in navigazione, non sapevano una parola d’inglese. Prima, tuttavia Simmonds chiese al pilota del mezzo dove fosse la bussola per tentare di guidare l’assalto con le carte che aveva. “E che cazzo ne so”, fu la risposta del marinaio, “fino a dieci giorni fa io facevo il tassinaro a South Philly (un’aerea periferica di Philadelphia, nda)”. Simmonds guidò il mezzo a occhio, dirigendolo verso il punto della costa che gli parve più pieno di fumo.


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I Marines sbarcano a Inchon. Secondo la tradizione, il Marine che sta scavalcando la rampa del mezzo da sbarco, è il tenente Baldomero Lopez (1925-1950), nella foto a destra, che sarebbe morto quindici minuti più tardi, ucciso da una granata nemica cui fece scudo col proprio corpo per salvare i suoi uomini. Medaglia d'onore alla memoria.




Alle 1731L i primi americani presero terra, coperti dalle squadre di rincalzo. Fu occupato il consolato britannico, e un plotone salì sulla Observatory Hill, dalla quale si dominava l’intero porto. Nonostante una serie di violenti scontri a fuoco con sacche di difensori, apparve rapidamente evidente che la maggior parte dei comunisti sopravissuti era ancora intontita per il bombardamento. C’era molta confusione, fra gli americani, gli sbarchi accuratamente pianificati a ondate successive della guerra del Pacifico erano solo un ricordo: il corrispondente di guerra britannico James Cameron, ricorda di aver visto due mezzi da sbarco uscire dal fumo e puntare uno contro l’altro in perfetta rotta di collisione, né i timonieri né i soldati a bordo parevano essersi accorto di quanto stava accadendo finché non cozzarono uno contro l’altro incendiandosi; un cingolato anfibio andò a sbattere contro la fiancata dell’incrociatore Kenya e diversi altri mezzi andarono al largo per miglia, anziché verso la costa. La visibilità era molto scarsa in mezzo al fumo e alla pioggia che batteva l’area dello sbarco fin dalle prime ore della giornata. La maggior parte di quelli che sbarcarono a Inchon ricorda soltanto di essere arrivata a terra inzuppata di pioggia, mentre cominciava a imbrunire. Ufficiali e soldati si misero a correre appena sbarcati, creando postazioni per i comandi di compagnia o mettendosi al riparo dal fuoco occasionale del nemico, che riuscì comunque ad affondare una LST a Blue Beach. L’oscurità era rotta dalle vampate degli spari, dal bagliore delle esplosioni e degli incendi e dal crepitare delle armi automatiche. A Red Beach otto LST furono arenati contro la diga frangiflutti e dal loro interno rotolò fuori un fiume di carri armati, autocarri, jeep, munizioni, viveri, medicinali che cominciarono a fornire carne viva, secondo la definizione di Cameron, allo scheletro della testa di ponte.



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I Marines trascorsero la notte accanto le loro armi, preoccupati per un contrattacco che non venne, fino a quel momento le perdite erano state irrisorie per le portate dell’operazione e i timori della vigilia: fra morti e feriti, le truppe delle Nazioni Unite avevano perso 200 uomini, alcuni dei quali annegati quando i loro cingolati anfibi si erano rovesciati nella confusione dello sbarco.

Alle prime luci del giorno successivo, 16 Settembre, mentre i Marines muovevano cautamente dalle loro posizioni verso l’interno, si videro civili coreani emergere dalle macerie delle loro case sbriciolate dal bombardamento navale americano sul lungomare di Inchon. “C’era ancora in piedi un bel po’ di roba”, ricorda Cameron, “e ci chiedevamo come mai. Dalle case venne fuori parecchia gente, un bel numero di abitanti. Molti erano intontiti dalle esplosioni, correvano da tutte le parti o barcollavano incerti, continuando ad alzare e abbassare le mani non si sa se in segno di resa o di saluto. Alcuni ci gridavano, mentre passavamo davanti loro, le uniche parole di inglese che conoscevano, ‘Thank you, thank you’, e l’ironia di questa espressione sconfinava dal grottesco nel macabro”.




ewwilliamson-photo-03.jpgEllis W. Williamson (1918-2007), all'epoca colonnello dell'Esercito.


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Il 1° e il 5° Marines presero contatto nelle prime ore del 16 e iniziarono immediatamente la spinta verso est, in direzione della capitale, lasciando al Terzo battaglione ROKMC l’incarico di rastrellare Inchon. Nel frattempo, gli Underwater Demolition Teams della Navy ripulirono le acque dagli ostacoli e dalle mine, e i Seabees misero rapidamente in funzione un molo artificiale che permise di far approdare le altre LSTs in maniera più efficiente di quanto fatto a Red Beach. Nel giro di una settimana, sarebbero state sbarcate 25000 tonnellate di rifornimenti, assieme a 6629 veicoli vari e a 53882 soldati.


I comunisti nel frattempo, avendo finalmente realizzato quanto stava accadendo, organizzarono un contrattacco. Sei diverse colonne di carri T34, per un totale di circa 120 MBTs, accompagnate da fanteria in gran parte appiedata, furono avvistate dalla ricognizione e immediatamente, e pesantemente, colpite dagli F4U del VMF 214, che perse un aereo con l’uccisione del pilota impossibilitato a paracadutarsi per la bassa quota. I pochi carri comunisti scampati alle attenzioni dei Corsairs, furono dispersi dai Pershings americani.


Il 5° Marines si mise in testa all’avanzata, sul lato nord della rotabile per Seoul, mentre il 1° procedeva lungo il lato meridionale. Superando una sporadica resistenza comunista, la sera del 17  gli americani erano ormai padroni dell’aeroporto di Kimpo, sulle cui piste, rapidamente rimesse in funzione dai genieri, fin dal mattino dopo cominciarono a scendere i Curtis Commando C46 e i Douglas Skymaster C54 carichi di rifornimenti, provenienti dal Giappone.


5.jpg Combattimenti a Seoul. Notare il Marine che fuma, nella foto qui a sinistra. Sotto, i carri sllo sfondo sono Sherman M4.










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Entro la sera del 19, il 5° aveva ripulito tutta la sponda meridionale del fiume Hansul, mentre il 1° procedeva più lentamente, avendo incontrato sulla sua strada un reggimento della 18a Divisione di fanteria nordista che, meglio comandato ed organizzato delle precedenti unità, e aiutato da un terreno difficile, costrinse i GIs a diverse ore di duri combattimenti per raggiungere Yongdungpo, il sobborgo di Seoul sul lato meridionale del fiume Han.


Le difficili relazioni fra l’Esercito e il Corpo dei Marines divennero sempre più evidenti mentre si avanzava verso Seoul. Gli uomini di Smith dimostrarono una persistente irritazione nei confronti della fretta che Almond continuava a fare loro, ossessionato com’era dalla promessa, fatta a MacArthur, di liberare Seoul entro il 25 Settembre, tre mesi esatti dopo l’invasione comunista. “Voleva a tutti i costi quel maledetto bollettino”, disse disgustato Ollie Smith. “Gli dissi che doveva chiederlo al nemico, non a me, quando avrei potuto liberare Seoul”.


Alcuni ufficiali di fanteria, peraltro, si dichiararono sconcertati dalla tattica usata dai Marines.  “I marines sono un prodotto della loro storia,” ricorda l’allora colonnello dell’Esercito, Ellis Williamson. “Sono addestrati, indottrinati a spostarsi dalla nave alla spiaggia e continuare ad andare avanti finché non avranno eliminato la resistenza contro la testa di ponte. L’idea di aggirare sul fianco una posizione li fa inorridire. Noi li chiamavano i soldati della tiritera, perché il loro motto era Hey, dindle, dindle, right up the middle (Dentro, dentro dritto al centro, nda). Durante quella marcia verso Seoul li ho visti fare cose che nessun reparto dell’Esercito avrebbe mai nemmeno lontanamente pensato subendo perdite molto più gravi di quanto noi ritenevamo accettabile e, in ultima analisi, rallentando continuamente l’avanzata per evacuare i feriti e attendere i rincalzi, riorganizzarsi, controllare se avevano munizioni a sufficienza per sostenere un altro scontro, e via così”.


È interessante notare che l’opinione di Williamson sui Marines americani, come soldati, sia quella condivisa dalla maggior parte degli ufficiali dell’esercito in tutto il mondo a proposito dei loro confratelli da sbarco. È probabilmente vero che il Corpo dei Marines ha dato più importanza al coraggio che alle tattiche, perfino il generale Shepherd criticò La lentezza dell’avanzata di Ollie Smith verso Seoul: “Se chi comanda un inseguimento pretende di avere sempre le sue forze schierate in ordine, farebbe bene a non cominciare nemmeno l’inseguimento”, disse. Eppure, in Corea, il coraggio e la decisione dei marines rimasero intatti per tutti e tre gli anni di guerra, mentre vari reparti dell’esercito si dimostrarono gravemente carenti sia sul piano morale che su quello professionale. Gli ufficiali superiori della 1a Divisione Marines non possono certo essere definiti raffinati intellettuali, ma fra Inchon e Panmunjom, Smith e i suoi uomini si sono sicuramente guadagnata la gratitudine del mondo libero.



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A balzi e soste, le lunghe file di soldati si mossero avanti, con l’equipaggiamento pesante trasportato dalle jeep e dagli autocarri. Il caporale Selwyn Handler, all’epoca ventenne, ricorda il tiro nervoso dell’artiglieria e dalle esplosioni dei razzi tirati dai Corsairs che poi sorvolavano le colonne di Marines battendo le ali in segno di saluto. Handler ha come delle brevi istantanee di quei giorni: alcuni sbandati nordcoreani trovati in una caverna e passati per le armi sul posto benché si fossero arresi, un colonnello che caccia urlando i marines da una fabbrica di birra appena “conquistata”, un bambino coreano che cammina curvo sotto il peso di un sacco di riso più grande di lui, un Corsair colpito dalla contraerea che pare incespicare e poi esplodere in aria.

 

Mentre il X Corpo di Almond puntava a est, il 16 Settembre, sotto una pioggia battente, l’Ottava Armata di Bulldog Walker riusciva a sfondare a Pusan. Fu un’operazione di una lentezza esasperante per i ritmi di MacArthur, ma la pioggia continua, torrenziale, impediva all’aviazione di appoggiare concretamente l’avanzata delle Nazioni Unite. Solo il 19, quando il cielo schiarì, i bombardieri riuscirono a frantumare le linee comuniste e a permettere l’avanzata oltre il fiume Naktong. I comunisti fuggivano praticamente senza combattere, gettando armi, equipaggiamento, perfino le uniformi: le perdite più grosse, ad esempio, il contingente inglese le ebbe il 23, quando due Mustangs americani mitragliarono e spezzonarono a bassa quota una collina appena conquistata dai fucilieri degli Argyll & Sutherland: 17 morti e 76 feriti prima che si riuscisse a far sospendere l’attacco. Un altro episodio di fuoco amico, fortunatamente senza morti, si ebbe tre giorni più tardi quel tragico incidente, quando le avanguardie della 1a Divisione di Cavalleria che avanzavano verso nord dal Perimetro di Pusan si incontrarono con reparti del 7° Fanteria che scendevano a sud da Inchon.


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Più a nord, il 1° Marines dovette impegnarsi duramente per tre giorni a Yongdungpo, mentre il 5° riusciva, dopo due tentativi andati a vuoto, ad attraversare il fiume Han. Il 25, entrambi i reggimenti erano impegnati nei duri combattimenti strada per strada che caratterizzarono la riconquista di Seoul: tre giorni di scontri feroci che devastarono interi quartieri della capitale. Anche se la ricognizione rivelava che il grosso dell’esercito comunista era in  rotta verso nord, le retroguardie, a Seoul, si batterono ferocemente facendo pagare caro agli uomini delle Nazioni Unite ogni metro conquistato.


La battaglia dei Seoul divenne fonte di prolungate controversie e costituì l’esempio di una forma di massacro che sarebbe divenuta tristemente popolare durante il Vietnam: la distruzione in nome della liberazione. Numerosi soldati e ufficiali sostennero, dopo la guerra, che la maggior parte delle distruzioni e delle vittime civili avrebbero potuto essere evitate con un efficace aggiramento invece di un assalto diretto appoggiato in modo preponderante dall’aviazione, dall’artiglieria e dai carri armati. Ma MacArthur e Almond volevano prendere Seoul alla svelta: davanti, avevano 20 mila comunisti decisi a tutto, ma ci fu anche molta psicosi e, spesso, degli overkills assolutamente irragionevoli. “Era sufficiente un cecchino che esplodeva qualche colpo contro una pattuglia americana, perché l’intero quartiere venisse raso al suolo dai cacciabombardieri o dall’artiglieria,” ricorda lo storico David Rees, che combatté a Seoul. “Alla base del pensiero militare dell’Occidente c’è la convinzione che per risparmiare le vite dei propri soldati se devono usare i mezzi e le armi. La Corea divenne in breve la spaventosa dimostrazione degli effetti di quella concezione da parte di un avversario che aveva i cannoni contro un altro che aveva solo la carne”.


I marines entrarono nella capitale da nord, da sud e da ovest, mentre un reggimento della 7a Divisione e il 187° gruppo da combattimento reggimentale aeroportato proteggeva i fianchi. Alcuni soldati rimasero inorriditi dalle atrocità scoperte. Selwyin Handler fu fra coloro che entrarono in un centro di detenzione nordcoreano. Ricorda di essere svenuto alla vista di un tavolo sul quale erano allineate le teste, staccate dal corpo a colpi di accetta, di diversi sudcoreani. A tutti erano stati strappati gli occhi, probabilmente mentre erano ancora in vita. Ed Simmonds del III battaglione, 1° Marines, fu tra coloro che scoprirono una fossa comune piena di cadaveri: uomini, donne, bambini, a centinaia. Per giorni, ricorda, i civili continuarono ad arrivare nella speranza di identificare qualcuno dei loro cari arrestati dai comunisti. Il colonnello Taplett, III battaglione, 5° Marines, veterano della guerra del Pacifico, la prese con più filosofia. “È così che questi gooks (scimmie, nda), trattano i loro simili”, disse, e quella per lunghi anni fu l’opinione condivisa da parte di gran parte delle truppe delle Nazioni Unite.


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Una fossa comune ritrovata dalle truppe delle Nazioni Unite.

























La notte del 25, il 5° Marines ricette lo sgradevole ordine di attaccare alle 0200L. Venne chiarito che era la conseguenza diretta dell’ossessione di Almond di avere il controllo di Seoul entro la data promessa a MacArthur. Il maggiore Simmonds aveva assunto il comando temporaneo di una compagnia di fucilieri al posto del suo comandante effettivo, che si era barricato in una distilleria di vino di riso con alcune cariche da demolizione e minacciava di fare esplodere tutto se non lo avessero lasciato scolarsi quello che aveva trovato. “Prendetevi i miei gradi,” urlava, “portatevi anche mia moglie e i miei figli, qui sono e qui resto”. Non fu l’unico episodio vergognoso, ricorda. Al mattino, avanzando fra le rovine, sorpresero altri soldati occupati a saccheggiare le case, a gozzovigliare con quanto trovato, una pattuglia che risultava dispersa da due giorni fu ritrovata all’interno di un’altra distilleria di vino di riso, tutti i soldati ubriachi fradici e con loro tre nordcoreani nelle medesime condizioni. Gli otto uomini di un’altra pattuglia dispersa furono ritrovati invece in una fogna, dove si erano nascosti dopo aver rubato degli abiti civili da un cortile dove erano stesi ad asciugare.

Il 5° Marines raggiunse il Campidoglio di Seoul soltanto il 27, due giorni dopo che Tokyo aveva annunciato in pompa magna la liberazione della città in perfetto accordo col comandante supremo. E con rammarico dei visitatori, subito dopo avere issato la bandiera a stelle e strisce, fu ordinato loro, diplomaticamente, di ammainarla e sostituirla con quella azzurra delle Nazioni Unite.

Due giorno dopo MacArthur in persona presiedette alla solenne cerimonia fra le rovine dell’edificio per celebrare la liberazione di Seoul e il ritorno del presidente, Syngman Rhee. I capi di Stato Maggiore, a Washington, cercarono invano di evitare quella pagliacciata, data anche la loro riluttanza a identificare gli Stati Uniti col controverso presidente sudcoreano, ma MacArthur apparve deciso ad assaporare il suo trionfo, incurante del prezzo in vite umane che era costato, ai suoi uomini e ai civili coreani. “Se Chromite fosse stata pianificata con la stessa cura di quella cerimonia, sarebbe stato magnifico”, commentò acido Ed Simmonds. Un quantitativo enorme di uomini e di mezzi era stato distolto dalla battaglia per costruire un ponte di barche attraverso il fiume Han e consentire a MacArthur e alla sua colonna motorizzata di arrivare direttamente in città dall’aeroporto di Kimpo.

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MacArthur arriva a Seoul.















In mezzo alla rovine del Campidoglio della capitale coreana, il comandante supremo si lanciò in una delle sue caratteristiche arringhe grondanti retorica e banalità a beneficio della folla di soldati, ufficiali di marina e corrispondenti che attorniavano lui e Rhee: “Per grazia della divina provvidenza, le nostre forze si sono battute sotto il vessillo della massima speranza e ispirazione dell’umanità, le Nazioni Unite, e hanno liberato questa antica città capitale della Corea”. La filippica fu interrotta dal crollo di vetri e mattoni che venivano giù dalla cupola danneggiata, trenta metri sopra le loro teste, provocando un fuggi fuggi generale che MacArthur finse di non vedere. Si rivolse a Rhee: “Signor presidente, i miei ufficiali ed io riprenderemo ora il nostro dovere di soldati, lasciando a lei e al suo governo i compiti della responsabilità civile”. I due si strinsero la mano, Rhee tratteneva a stento le lacrime. “Noi la ammiriamo”, disse al generale. “Noi le vogliamo bene, come salvatore del nostro amato Paese, del nostro popolo, della nostra razza”.


MacArthur se ne tornò a Tokyo ammantato della propria serena convinzione di un destino adempiuto, avvolto in un’aura di invincibilità che lasci ammirati perfino i capi del suo Paese. Era convinto che la guerra di Corea fosse vinta e che fosse merito esclusivo suo. Chromite costò agli americani 222 morti e circa 800 feriti, sconosciute le perdite nordcoreane e quelle fra i civili.



Bibliografia:

·  Blair, Clay, The Forgotten War: America in Korea, 1950–1953 Naval Institute Press (2003).

·  Clark, Eugene Franklin. The Secrets of Inchon: The Untold Story of the Most Daring Covert Mission of the Korean War: Putnam Pub Group (2002) .

·  Hastings, Max, The Korean War, Touchstone Books, 1988

·  Rottman, Gordon R. 'Inch'on 1950'; The last great amphibious assault; Osprey Campaign Series #162; Osprey Publishing, 2006.

·   Stolfi, Russel H. S. "A Critique of Pure Success: Inchon Revisited, Revised, and Contrasted." Journal of Military History 2004 68



  



Inchon: a sinistra, il monumento in ricordo della sbarco. A destra: la statua di MacArthur.
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