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6 luglio 2009 1 06 /07 /luglio /2009 19:20


Geoffrey Nathaniel Pyke (1893-1948)




Nel 1942, nel momento forse più buio della Battaglia dell’Atlantico, mentre i branchi di lupi affondavano milioni di tonnellate di naviglio alleato senza che nulla paresse in grado di contrastarli efficacemente, il giornalista e inventore sui generis inglese Geoffrey N Pyke, all’epoca assegnato all'ufficio del Capo delle Operazioni Combinate, Lord Mountbatten, sortì l'idea di utilizzare gli icebergs, opportunamente livellati, come aeroporti galleggianti per consentire la scorta aerea dei convogli attraverso l'Atlantico. L'aeroporto, ovviamente, prima o poi, si sarebbe sciolto, andando alla deriva verso sud, ma Pyke riteneva che si potesse limitare entrambi i processi, ricoprendo il ghiaccio di una sostanza che ne rallentasse la liquefazione, e dotandolo di motori che contrastassero le correnti marine. Per di più, un iceberg sarebbe risultato praticamente invulnerabile ai siluri, e un eventuale bombardamento navale non avrebbe fatto molti danni in più che in un normale aeroporto, danni che comunque potevano essere riparati in breve, pompando acqua marina e refrigerandola per trasformarla in ghiaccio che poi i bulldozers avrebbero livellato.

Mountbatten parlò dell'idea a Winston Churchill, che ne fu entusiasta. Nacque così il Project Habakkuk (spesso scritto erroneamente Habbakuk), da un versetto della Bibbia, "Vedete fra le nazioni, guardate, meravigliatevi e siate stupefatti! Poiché io sto per fare ai vostri giorni un'opera, che voi non credereste, se ve la raccontassero" (cfr Abacuc, 1,5, Bibbia versione Luzzi, la più fedele nella traduzione italiana alla King James). Il progetto, dopo vari passaggi, si tramutò in una sorta di portaerei di ghiaccio della lunghezza di 2000 piedi (610 metri), una larghezza di 300 (91) e un pescaggio di 40 (12), per un dislocamento che doveva superare i due milioni di tonnellate.









L'enorme mole della nave fece sorgere non pochi problemi. Il ghiaccio è fragile e viene deformato dalla pressione, tenere insieme una massa di quelle dimensioni poteva essere un’impresa (chiunque abbia visto un iceberg dal vero, sa che perde pezzi in continuazione. Per il "berg" non è un problema, per una struttura militare sì). Alla ricerca di una soluzione, fu costruito un prototipo, nella provincia canadese dell'Alberta, alla larga, si sperava, dagli occhi indiscreti: uno scheletro di legno di 60 piedi per 30 (18 metri per 9 circa), riempito di blocchi di ghiaccio e coperto da un telone isolante. Un sistema di raffreddamento simile a quello di un surgelatore mandava aria gelata attraverso una rete di sottili tubi per mantenere la temperatura della struttura al di sotto dello zero. Il tutto fu poi calato in un lago.

Nel frattempo (siamo ormai all’inizio del 1943), due ricercatori del Polytechnic Institute of Brooklyn, New York, scoprirono per caso che miscelando segatura (o altri materiali fibrosi come il cotone, o la carta di giornale) e acqua, in proporzione 14-86, e portando il tutto a meno quaranta, si poteva creare una sostanza in grado di galleggiare pur essendo molto più resistente del ghiaccio. Il materiale fu chiamato pykrete, o pykecrete, contrazione di Pyke e concrete, cemento. Successivi esperimenti dimostrarono che resisteva alla pressione, al calore e, entro certi limiti, perfino agli esplosivi, poteva essere tagliato con normali attrezzi industriali, e scioglieva molto più lentamente del ghiaccio. Si racconta che Mountbatten dimostrasse a Churchill la resistenza del pykrete gettandone un pezzo nel bollitore del the del primo ministro. Sembrava fatto apposta per risolvere tutti i problemi di Habakkuk.




Habakkuk, al centro, paragonata con una moderna CV e una nave da battaglia dell'epoca.


Nonostante le sue apparenti miracolose proprietà, il pykrete non poteva risolvere altri problemi che si erano manifestati nel frattempo. Le portaerei Habakkuk sarebbero costate, si stimava, non meno di 100 milioni di dollari (più di una nave da battaglia della classe Iowa, per intenderci), e la sua costruzione poneva problemi ingegneristici di non facile soluzione immediata, oltre che di reperibilità del materiale: la cellulosa, in quel momento, scarseggiava, a differenza dell’acciaio. D’altro canto, l'autonomia degli aerei alleati andava aumentando sensibilmente, e ciò permetteva di scortare i convogli direttamente dalle basi in Canada, Islanda e Scozia, senza contare che gli americani stavano producendo centinaia di portaerei di scorta convertendo navi commerciali. Tutto questo fece apparire Habakkuk uno spreco di risorse. Il progetto fu cancellato all’inizio del 1944, prima che iniziasse la costruzione della prima portaerei. Il pikrete finì nel dimenticatoio delle invenzioni senza sbocco pratico.



Un campione di pykrete utilizzato per i test balistici.

BIBLIOGRAFIA: Perutz, M. F. (1948). "A Description of the Iceberg Aircraft Carrier and the Bearing of the Mechanical Properties of Frozen Wood Pulp upon Some Problems of Glacier Flow". The Journal of Glaciology 1 (3): 95–104
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29 maggio 2009 5 29 /05 /maggio /2009 20:37

“And now set Europe ablaze “, “ date l’Europa alle fiamme”, ordinò Winston Churchill a Hugh Dalton, capo della pianificazione bellica e primo responsabile dello Special Operation Executive, i cui uomini, in Inghilterra, sarebbero divenuti meglio noti come The Baker Street Irregulars. L’SOE fu organizzato per espresso desiderio del primo ministro britannico il 22 Luglio 1940 allo scopo di fomentare e appoggiare la resistenza al governo di Hitler nell’Europa occupata. E non ci fu episodio nella storia dell’opposizione  dell’Europa occupata dai tedeschi che non abbia corrisposto meglio ai desiderata di Churchill circa il “dare alle fiamme” della rivolta di Varsavia dell’Agosto 1944.

Da tempo era sorta clandestinamente in Polonia una Armata Nazionale, Armja Krajowa, o più semplicemente AK, cui si contrapponeva la Armja Ludowa, o AL, formata da elementi comunisti. Quando le forze sovietiche giunsero ai sobborghi di Varsavia sulla sponda orientale della Vistola, per ordine del governo in esilio a Londra, le formazioni di Varsavia della AK, agli ordine del generale Tadeusz Bor-Komorowski, iniziavano l'insurrezione, allo scopo di liberare la capitale polacca con le proprie forze, prima che venisse espugnata dalle divisioni sovietiche.

Essa mise Hitler di fronte a una serie crisi militare interna: rappresentò una sfida per altri popoli oppressi del suo impero a fare altrettanto; diede peso al messaggio che Churchill aveva ripetuto per tutta la guerra ai popoli d’Europa, che i vinti erano pronti a risollevarsi contro il tiranno al momento opportuno, dando impulso alla “guerra parallela” fatta di attentati e sabotaggi appoggiata dalle formazioni speciali dell’Esercito britannico e americano all’interno del continente occupato nel corso dei quasi cinque anni di guerra successivi.

O, almeno, così parve superficialmente. Dal punto di vista storico, occorre però anche ricordare che la rivolta di Varsavia, nonostante tutto il coraggio dimostrato e le sofferenze subire dall’esercito territoriale polacco in sette settimane di feroci combattimenti ― 10000 combattenti uccisi, e 200000 o forse addirittura 250000 civili che subirono la medesima sorte ― non fu una reazione spontanea alla brutalità dell’occupazione, e nemmeno, secondo una obiettiva valutazione, un grosso ostacolo per i nazisti nel mantenimento dell’ordine nel resto della Polonia, mente la Wermacht continuava a contrastare efficacemente l’Armata Rossa, che si era arrestata sulla rive della Vistola a corto di carburante e munizioni, essendosi le sue linee di rifornimento allungate troppo nelle ultime settimane. La sollevazione, venne al contrario effettuata prematuramente perché l’esercito territoriale aveva calcolato che la sconfitta tedesca in Bielorussia potesse offrire l’occasione irripetibile di occupare la capitale a nome del governo in esilio, prima che l’arrivo dei sovietici portasse all’instaurazione di un governo fantoccio controllato da Stalin. Questi calcoli però fallirono perché i sovietici non furono in grado di mantenere la pressione sui tedeschi e questi ultimi a loro volta trovarono i mezzi per combattere e, alla fine, sconfiggere gli insorti, senza dover impegnare le loro forze di prima linea.

Lontana dal dimostrare il contributo che una insurrezione avrebbe potuto dare alla caduta di Hitler, la rivolta di Varsavia dell’Agosto 1944 rappresentò solo un tremendo monito di quanto pericolosa poteva essere, anche in una fase tanto avanzata della guerra, la sollevazione in armi di uno qualsiasi dei popoli assoggettati al Reich millenario. E se quello di Varsavia non dovesse bastare, come prova, il concetto trova conferma nelle esperienze dei partigiani francesi in Giugno e di quelli cecoslovacchi in Luglio di quel medesimo anno.

In Francia, i maquis (ufficialmente Forces Françaises de l’Interieur) della zona di Grenoble alzarono la bandiera della rivolta sul massiccio del Vercors lo stesso giorno dello sbarco in Normandia, e da lì cominciarono ad attaccare le truppe tedesche in transito lungo la valle del Rodano. Nel giro di poche settimane, a Vercors si raccolsero migliaia di partigiani, in gran parte disertori dei centri di lavoro coatto. Il gruppo di Armate G, che si trovava esposto a questa tattica di colpi di spillo in tutto il suo settore di responsabilità, decise che era arrivato il momento di dare un esempio a tutti. L’altopiano fu circondato, Waffen SS arrivarono dal cielo con gli alianti, e, in cinque giorni di brutale repressione, fra il 18 e il 22 Luglio, massacrarono praticamente tutti. Su scala ridotta, ripeté quello che i reparti di sicurezza tedesca stavano facendo contro i ribelli slovacchi, nei pressi dell’allora confine sovietico. Hitler non dovette più preoccuparsi di queste sollevazioni, tranne l’insurrezione di Parigi che fu poco più di una farsa per blandire l’ego francese e comunque calcolata meticolosamente nei tempi e nei modi.

Quel che rese il massacro di Vercors ancora più scoraggiante per coloro che volevano dare alle fiamme l’Europa, è il fatto non secondario che esso era stato voluto, concordato e appoggiato in ogni modo dall’SOE: una delle sue squadre di collegamento, codificata Jedburgh, era stata paracadutata in appoggio ai maquis di Vercors, e aerei angloamericani lanciarono centinaia di tonnellate di armi e munizioni e rifornimenti di ogni genere (per settimane, i tedeschi mangiarono la cioccolata e fumarono le sigarette americane trovate sul Vercors). Tutto ciò si rivelò di nessuna utilità: benché guidati da un alto ufficiale francese, i partigiani furono massacrati fino all’ultimo uomo dalle Waffen SS.

Varsavia, il Vercors e la Slovacchia furono tre fallimenti estremamente costosi in termini di vite dei coraggiosi patrioti coinvolti, fallimenti che peraltro chiesero un pedaggio di vite tedesco assolutamente irrilevante ai fini bellici e devono essere considerati, a una valutazione obiettiva, assolutamente inutili e irrilevanti. Se questo rappresenta un verdetto equo della resistenza europea, qual è la spiegazione del suo insuccesso?

Alla base dell’errata valutazione di Churchill di quello che la resistenza poteva realizzare contro un regime tirannico, valutazione peraltro condivisa da migliaia di suoi concittadini e, più tardi, da migliaia di americani, c’era una completa incomprensione del ruolo della pubblica opinione nella politica di conquista. La storia della Gran Bretagna è permeata di conquiste e di resistenze alla conquista, durante la stessa vita di Churchill i confini dell’impero erano stati notevolmente ampliati con la forza militare, dall’Africa meridionale, occidentale e orientale, in Medio Oriente e nell’Asia sudorientale. Ma la marea dell’imperialismo britannico era sempre stata frenata da altri fattori: la continua influenza delle varie “leghe” antimperialiste, dal senso di equilibrio che era insito negli stessi amministratori britannici. Quando si trovarono di fronte alle atrocità dei Sepoys, gli inglesi vittoriani reagirono con una brutalità che non aveva niente da insegnare alle forze hitleriane, ma i loro successori furono allevati in una concezione più equilibrata, alla cui base stava il rispetto per le proprie convinzioni democratiche e la preoccupazione della buona opinione di altri popoli, soprattutto gli americani, che le condividevano. In seguito alle sue esperienze personali nella guerra boera, Churchill aveva compreso perfettamente fino a che punto potesse arrivare il desiderio di libertà e quanto difficile fosse, per una potenza occupante, imporre un governo straniero a un popolo convinto del proprio diritto all’indipendenza. Le convinzioni personali del premier, erano anche corroborate dalla cultura storica che possedeva, e che abbondava di esempi di successi della resistenza popolare ai dominatori stranieri, dai continentali contro Giorgio II d’Inghilterra e spagnoli e prussiani contro Napoleone.

È difficile immaginare una divergenza di vedute maggiore di quella esistente fra Churchill e Hitler in materia di concezione dell’impero. Churchill, pur essendo imperialista, credeva nella dignità dell’uomo, Hitler (come Stalin, peraltro), era convinto questa fosse solo una debolezza borghese. Chiunque avesse letto il Mein Kampf sapeva come Hitler negasse sprezzantemente a chiunque non appartenesse alla razza germanica il diritto ad autogovernarsi. Per motivi di opportunità, si trovò disposto a fare causa comune coi giapponesi e per vecchia fedeltà incluse Mussolini “discendente dei Cesari” e gli italiani nella confraternita germanica. Aveva anche un debole ideologico per i greci moderni, che identificava coi difensori delle Termopili contro le orde asiatiche (e che riconosceva, con ragione, come tenaci combattenti); gli scandinavi erano per lui cugini di razza, titolo che sognava fosse accettato anche da inglesi, olandesi e fiamminghi, ed era disposto a riconoscere pari dignità ai finlandesi e ai baltici. Inoltre, finché si batterono al suo fianco, rinunciò a bollare dal punto di vista razziale ungheresi, romeni, bulgari e slovacchi. Ma per il resto, per tutti gli altri popoli che nel 1941 erano sotto il suo dominio, provava solo disprezzo: essi appartenevano a quei gruppi, come i francesi, che erano stati “macchiati” dal giogo romano o alla congerie dei popoli slavi, il cui destino era quello di essere dominati da imperi superiori.

Di conseguenza, il Führer non era affatto toccato dalle riserve morali tanto evidenti nell’atteggiamento anglosassone nei confronti dell’impero. Era entusiasta della facilità con la quale aveva annientato Polonia, Cecoslovacchia e Iugoslavia, e misurava con un metro assolutamente di convenienza la correttezza dell’autorità con la quale aveva sostituirono i loro governi. Se la nuova autorità funzionava accollandosi tutte le responsabilità civili del Paese, dalla polizia alla distribuzione dei viveri all’organizzazione del lavoro e della vita sociale, era ben felice di lasciarla al suo posto. Così concesse ai danesi che il loro governo mantenesse tutti i diritti parlamentari (ancora nel 1943 vi furono elezioni democratiche che portarono a un Parlamento, a Copenaghen, formato al 97 per cento da patrioti), e lasciò che Pétain impersonasse l’apparenza, se non la sostanza di un capo di stato sovrano francese, anche dopo aver esteso anche al territorio di Vichy, nel Novembre 1942, l’occupazione militare tedesca.

La complessità dell’atteggiamento di Hitler per quanto riguarda l’occupazione, si ritrova nel variato tipo di resistenza opposta ai suoi regimi di occupazione, ma il tipo di resistenza non era solo determinato dalla natura del regime che Hitler aveva scelto di imporre su un determinato territorio occupato; c’erano in gioco altri fattori, uno di tipo politico (l’atteggiamento delle sinistre), uno militare (il tipo e il grado di assistenza fornito dagli inglesi, e, dopo il 1941, anche dagli americani), e un terzo geografico.

Il grado di successo di un qualsiasi movimento di resistenza all’occupazione nemica, viene determinato direttamente dalla difficoltà del terreno in cui opera, a patto che esso non sia troppo impervio per poter garantire il necessario rifornimento di materiale alle formazioni irregolari. Praticamente buona parte dell’Europa era o inadatta per ragioni geografiche, o troppo lontana dalle basi d’appoggio alleate per consentire un rifornimento rapido e continuo delle forze clandestine ivi operanti. La Danimarca, benché la resistenza morale all’occupante fosse fortissima, male si prestava all’attività partigiana, essendo piatta, quasi sprovvista di boschi  e fittamente popolata. Le stesse con dizioni si riscontravano in Olanda, nel Belgio e nella Francia settentrionale.

In queste zone l’attività clandestina veniva immediatamente individuata dalla polizia ― e in tutta Europa occupata le forze di polizia locali accettarono di lavorare sotto l’autorità e la direzione del conquistatore ― ed altrettanto immediatamente arrivava la punizione. La facilità con la quale si potevano effettuare rappresaglie, e la spietatezza minacciata ― e spesso attuata ― sia da parte tedesca che delle forze collaborazioniste, si dimostrarono un deterrente sufficiente per buona parte della guerra. Per di più il timore di rappresaglia ― una gamma che andava dall’imposizione del coprifuoco alla cattura di ostaggi e alla loro esecuzione sommaria ― incoraggiava le delazioni, che a loro volta facevano aumentare l’efficacia del controllo tedesco. La maggior parte delle organizzazioni di resistenza,m quando cominciarono a costituirsi, fu costretta a dedicare gran parte delle proprie energie alla lotta contro gli informatori ― e non sempre con pieno successo.

L’unica zona dell’Europa in cui il terreno era favorevole all’attività partigiana, era la Norvegia a nord di Oslo, ma lassù, la popolazione era talmente scarsa e la densità delle truppe di occupazione sufficientemente elevata, che tutte le attività di guerriglia dovettero essere organizzate dall’estero. Un’infiltrazione di elementi della resistenza norvegese dalla Scozia (che, nel Febbraio 1943 distrusse l’impianto di produzione dell’acqua pesante a Vermork, lasciando così praticamente senza sbocco il programma nucleare tedesco), appoggiata da azioni di commando britannici contro gli avamposti isolati tedeschi, ebbe solo l’effetto di indurre Berlino a rinforzare la guarnigione tedesca in Norvegia, ma la resistenza interna ebbe un’importanza strategica trascurabile.

Alcune regioni dell’Europa centrale e sudorientale erano, al contrario, favorevoli all’’attività partigiana, in particolare la regione carpatica e la Foresta Boema, buona parte della Iugoslavia, la zone montuose della a Grecia e delle sue isole principali come Creta e Rodi, le Alpi e gli Appennini in Italia.  Il governo cecoslovacco in esilio diresse una delle più efficienti reti di informatori dell’Europa occupata, tuttavia, l’assassinio di Reinhard Heydrich, nel Maggio 1942, provocò una rappresaglia talmente spaventosa (il massacro dell’intera popolazione dei villaggi di Lidice e Ležáky), che lo sforzo non venne ripetuto. Per la cronaca, gli assassini furono traditi da uno dei loro, Karel Čurda, che si presentò alla Gestapo non appena lanciato da un Halifax britannico.

In Grecia, i tedeschi reagirono con tanta spietata brutalità alle operazioni partigiane, che gli ufficiali di collegamento dell’SOE chiesero ufficialmente a Londra e al governo in esilio di sospendere ogni attività; gli unici che continuarono a commettere atti terroristici e sabotaggi, incuranti delle rappresaglie, furono i comunisti dell’ELAS, Ellinikos Laikos Apeleftherotikon Stratos. In Polonia, il governo in esilio si astenne da ogni attività fino al momento in cui scatenò l’insurrezione di Varsavia: anche se i polacchi avevano un servizio informativo secondo forse solo a quello cecoslovacco (uno dei suoi trionfi fu la fornitura agli angloamericani di parti delle bombe volanti V1 cadute dopo i lanci di prova), si decise dal primo momento che era meglio conservare le forze dell’esercito territoriale fino al momento in cui il crollo della Germania avrebbe consentito di uscire allo scoperto per riconquistare l’indipendenza, consci anche del fatto di avere poche armi a disposizione. Fino al 1944, l’SOE non aveva apparecchi dotati di autonomia sufficiente per raggiungere la Polonia centrale, e anche dopo aver ottenuto le basi nell’Italia meridionale nel 1943, i voli erano lunghissimi e pericolosi. E Mosca, che pure concedeva qualche volta agli apparecchi alleati la possibilità di rifornirsi in territorio sovietico nell’ambito dell’offensiva aerea strategica contro la Germania, si rifiutò sempre di farlo per le missioni di rifornimento dei patrioti polacchi.

Obiettivamente, bisogna riconoscere che il principale successo della resistenza nell’Europa occidentale, fu più spirituale che materiale,. Il simbolo più evidente della resistenza era la stampa clandestina (nella sola Olanda, nel 1941, circolavano 120 fogli diversi) e la più diffusa attività di trasmissione a Londra di informazioni tramite le reti clandestine, benché parecchie di esse fossero pesantemente infiltrate a ogni livello dai tedeschi e fornissero informazioni addomesticate. La pubblicazione dei giornali clandestini e la gestione delle reti di informazione, con altre attività sussidiarie come la messa in salvo degli equipaggi degli apparecchi abbattuti, qualche aiuto agli ebrei, sporadici atti di sabotaggio e pochi omicidi mirati (quasi sempre di collaborazionisti per non incorrere nelle spaventose rappresaglie naziste), diedero un bon contributo a risollevare l’onore nazionale durante gli anni dell’occupazione, ma nessuna di queste attività scosse il controllo tedesco, efficiente e poco costoso.

Gli storici della resistenza sono ovviamente restii a fornire i dati relativi alle forze di sicurezza tedesche ― il Sicherheitsdienst civile e la Feldgendarmerie, militare ― ma è probabile che il loro totale, in Francia, non abbia mai superato i 6500 elementi per tutta la durata del conflitto. La guarnigione di polizia tedesca di Lione, seconda città francese, nel 1943, contava in tutto 500 uomini. Le divisioni dell’esercito tedesco di stanza in Francia, 60 nel Giugno 1944, non parteciparono in alcun modo all’attività dei servizi di sicurezza, e dato che erano dislocate quasi esclusivamente nelle zone costiere, non  erano neanche in grado di farlo. Contro questi reparti, la resistenza schierò circa 100 mila uomini armati nel Luglio 1944, quando l’imminente arrivo delle truppe alleate aveva gonfiato gli effettivi. Durante tutta l’occupazione propriamente detta, il numero e la dimensione dei reparti partigiani fu scarsa, e la loro attività proporzionalmente limitata. Nei primi nove mesi del 1943, il totale degli ufficiali delle forze di sicurezza tedesca assassinati, fu di 150, gli atti di sabotaggio di un certo rilievo c-i-n-q-u-e.

Il concetto popolare di un’Europa occidentale “in fiamme” sotto l’occupazione tedesca, espresso per la prima volta da John Steinbeck nel suo romanzo La luna è tramontata (1942), e alimentato poi da altri autori, deve essere considerato di conseguenza un mito romantico, ancorché comprensibile. I paesaggi rurali e urbani dell’Europa occidentale, in cui la popolazione era tanto esposta alla rappresaglia, erano completamente inadatti all’attività insurrezionale, che solo a condizione di essere regolarmente rifornita e appoggiata da forze regolari esterne riesce a costringere il nemico a distogliere importanti risorse dal fronte vero e proprio. Durante l’intero corso della guerra, Hitler si trovò a dover affrontare una guerriglia di questo genere soltanto in due settori operativi: alle spalle del fronte russo, dove Stalin, dopo alcuni iniziali sbandamenti ed esitazioni, appoggiò rifornì di materiali e alla fine anche di ufficiali di collegamento e comando le formazioni irregolari annidate nelle impenetrabili paludi del Pripiet ― e la Iugoslavia.

Le formazioni partigiane sovietiche vennero inizialmente formate coi resti delle divisioni regolari isolate dall’avanzata tedesca in Bielorussia e ucraina nell’estate 1941, superstiti che conservavano la volontà, e spesso anche i mezzi, per continuare a combattere dopo essere rimasti tagliati fuori dall’Armata Rossa. Per il reclutamento, però, essi dipendevano dalle popolazioni locali, entrambe (soprattutto quella ucraina) sospette agli occhi del tiranno del Cremlino, in quanto minoranze inaffidabili che in larga parte stavano già collaborando con le autorità d’occupazione. Stalin, di conseguenza, creò le оргтройки (orgtrojki, cioè triumvirati organizzativi): le strutture di comando delle formazioni partigiane, inviate direttamente da Mosca, erano infiltrate attraverso le linee tedesche fino alle bande partigiane vere e proprie, ed erano formate da un terzetto di ufficiali rispettivamente dello Stato, del Partito, e del Commissariato del popolo per gli Affari Interni (NKVD). Per di più, fino all’estate del 1943, poco prima del ritorno delle formazioni partigiane sotto il controllo dell’Armata Rossa (Gennaio 1944), i loro effettivi, in Ucraina, non superarono mai i 17000 uomini; solo in seguito salirono, fino a raggiungere, alla vigilia dell’operazione Bagration, i 140000 effettivi che poterono eseguire 40000 attentati e atti di sabotaggio vari contro le linee ferroviarie. Ma a questo punto, siamo nell’estate del 1944, i reparti partigiani erano tornati sotto l’Armata Rossa, che provvide a rimpolparne gli effettivi.

Come risposta, i reparti speciali antipartigiani delle SS, aggregati ai reparti “a riposo” dopo l’avvicendamento dal fronte, eseguirono vasti rastrellamenti nelle zone considerate Bandengebiet, “terra di bande”, bruciando e uccidendo senza pietà comprese donne a bambini, spesso a migliaia. Le inchieste effettuate nel dopoguerra dagli storici che avevano accesso ai documenti tedeschi, dimostrarono che queste operazioni erano molto efficaci e che le valutazioni sovietiche dei successi dei partigiani erano state vistosamente esagerate, mentre le perdite effettivamente inflitte ai tedeschi, sia in uomini che in  materiali, erano da considerarsi ampiamente sovrastimate. Ad esempio, la cifra ufficiale sovietica di 147835 soldati tedeschi uccisi dai partigiani nella zona di Орёл (solitamente traslitterata Oryol, si pronuncia Ariòl) a sud-ovest di Mosca, va corretta, secondo J. A. Armstrong, a circa 35000 fra morti, feriti e dispersi. In realtà, è ormai assodato dall’analisi dei documenti resisi disponibili dopo il collasso dell’URSS, che i partigiani sovietici furono molto più attivi nel terrorizzare la popolazione civile delle aree sotto occupazione tedesca. Solo nel 1942 sono documentate le uccisioni di 148.715 cosiddetti collaboratori, spesso assieme alle loro famiglie, bambini compresi, altre migliaia di vittime furono provocate dalle rappresaglie tedesche seguenti gli attentati. Inoltre, i partigiani requisirono migliaia di tonnellate di derrate alimentari ai contadini, seppur in alcuni casi rilasciando una ricevuta che avrebbe permesso, a guerra ultimata, di essere risarciti. Come ricorda un ufficiale dell’NKVD di allora “Dovevamo ricordare al popolo che Hitler sarebbe passato,Stalin sarebbe rimasto”.

Di conseguenza, i sostenitori dell’efficacia della guerra partigiana devono parlare della Iugoslavia, che rappresenta,al di fuori di ogni dubbio, un caso speciale. Il suo terreno montagnoso, tagliato da profondo vallate e cinto da una costa facilmente accessibile agli uomini dell’SOE, rappresenta un terreno ideale per la guerriglia. la sua popolazione serba era abituata alla resistenza contro i turchi, e, dopo l’invasione austriaca del 1914-15, a battersi sul proprio territorio. L’aggressione nazista del 1941 aveva offeso l’orgoglio nazionale e per il suo carattere improvviso aveva lasciato migliaia di uomini in possesso di armi ed equipaggiamenti militari in zone impervie che fornirono le basi per le azioni contro gli invasori. I primi ad alzare la bandiera della rivolta, furono i monarchici serbi, comandati dal generale Dragonliub, “Cicia (zio)” Draja, Mihailovic: i suoi cetnici, così’ chiamati a ricordo dei serbi che si erano opposti in armi all’occupazione turca, si trovarono fin dal principio in contrasto con gli ustascia croati che avevano fatto causa comune con le forze italiane in Slovenia e Croazia. Erano anche comprensibilmente contrari alle appropriazioni territoriali ungheresi, bulgare, rumene e albanesi, ma la loro lotta era prevalentemente contro i tedeschi, che avevano imposto un governo fantoccio sul territorio storico della Serbia, e contro il quale diedero inizio, fin dal Maggio 1941, alla guerra partigiana.

L’SOE prese contatti coi cetnici nel Settembre 1941 e nell’estate successiva, 1942, cominciò a rifornirli di armi e denaro. Il capitano D. T. Hudson dell’SOE, tuttavia, nel corso della sua prima visita ai cetnici, era anche venuto in contatto con gruppi di guerriglieri antimonarchici guidati da un esperto agente del Comintern, Josip Broz, che aveva assunto il nome di battaglia Tito. Hudson si fece ben presto l’idea che Tito fosse, per i tedeschi, un avversario ben più serio e pericoloso di Mihailovic, il quale, secondo i suoi sospetti, mirava a trasformare i cetnici in un “esercito territoriale” sul modello polacco, e a conservare le forze fino al giorno in cui le circostanze esterne gli avrebbero permesso di liberare il Paese dall’interno. I suoi sospetti non erano fondati, in quanto i cetnici, in quel 1942, si stavano battendo coraggiosamente contro i tedeschi, e, in base alle decifrazioni Ultra, erano considerati ancora “fastidiosi” dai nazisti alla fine dell’anno successivo, 1943. Mihailovic era un acceso nazionalista serbo, e per tanto si rifiutava di collaborare con Tito alla costituzione di un movimento unitario di resistenza. Come risultato, gli uomini di Tito e di Zio Draja cominciarono a combattersi per il controllo della Serbia occidentale, e si arrivò da parte cetnica (ma pare anche titina) a stipulare brevi tregue locali con gli occupanti italiani per regolare i loro conti interni.

Uno dei principali motivi dell’atteggiamento di Mihailovic era quello di risparmiare alla popolazione civile le rappresaglie e le atrocità da parte degli occupanti, scopo perfettamente giustificabile date le spaventose conseguenze della guerra civile che si verificò comunque e che costò la vita al dieci per cento della popolazione prebellica (circa un milione e mezzo di morti). Tito non avanzava riserve del genere: nella classica tradizione della rivoluzione, impegnò a oltranza i partigiani contro gli occupanti, e, alla fine del 1943, si era dimostrato, agli occhi dell’SOE, la cui sezione iugoslava era dominata da ufficiali filo-comunisti, il più efficiente dei comandanti della guerriglia balcanica. Dalla primavera del 1944, i partigiani di Tito furono gli unici a godere degli aiuti inglesi, completamente sospesi ai cetnici, fatto, questo, che li spinse a concordare una tregua coi tedeschi, pur non sospendendo la collaborazione con gli americani dell’OSS, coi quali portò a compimento l’Operazione Halyard.

Nel frattempo, Tito aveva rafforzato il suo esercito partigiano e sferrava violenti attacchi contro i tedeschi nella parte centrale e meridionale del Paese, minacciando lo sfruttamento delle risorse minerarie locali, e, soprattutto, le importanti linee di comunicazione con la Grecia, costringendo le forze dell’Asse a un notevole sforzo di “bonificazione” delle aree di interesse strategico: le cosiddette “Sette Offensive Anti-Partigiane, l’ultima delle quali, l'Operazione Rösselsprungebbe tanto successo da costringere Tito a riparare a Bari (vi fu portato dal cacciatorpediniere inglese Blackmore), nonostante avesse potuto approfittare dei forti quantitativi di armi lasciate dagli italiani dopo l’armistizio dell’8 Settembre, che gli permise di portare i suoi effettivi a 150 mila.

La Royal Navy riportò comunque Tito in territorio iugoslavo, sia pure sull’isola di Lissa, ove l’SOE aveva costituito una base per appoggiare i partigiani, mentre, nel frattempo, la British Balkan Air Force, costituita in Giugno a Bari, continuava a rifornire i partigiani all’interno del Paese con costanti e cospicui aviolanci di armi, quasi sempre americane.

In Agosto, Tito lasciò Lissa per recarsi a visitare Stalin, fino a poco prima assai tiepido nei suoi confronti. In quest’occasione, Tito “autorizzò” le truppe sovietiche a entrare nel suo Paese, cosa che avvenne dal confine romeno il 6 Settembre successivo. L’arrivo dei sovietici, e la decisione, in Ottobre, di Hitler di evacuare la Grecia, trasformarono la posizione dei partigiani: il Gruppo di Armate F, preso sul fianco nei Balcani dall’Armata Rossa e minacciato lungo la costa adriatica dagli eserciti alleati di stanza in Italia, si affrettò a ripiegare verso la Iugoslavia centrale. Belgrado cadde il 20 Ottobre, per effetto di un attacco dell’Armata Rossa sovietica col contributo dei partigiani titini.

Mihailovic fece una fine tragica che, sicuramente, col senno del poi, non meritava. Dopo aver passato un anno alla macchia nelle montagne della Serbia centrale, fu catturato, processato e fucilato a Belgrado il 17 Luglio 1946. Il suo grido di discolpa, “volevo molto, ho cominciato molto, ma la tempesta della guerra ha spazzato via me e il mio lavoro”, è rimasto a epitaffio di un uomo che ebbe il solo errore di essere un nazionalista in uno stato di minoranze le cui divergenze Hitler seppe cinicamente sfruttare per dividere e comandare.

Col senno del poi, vengono anche notevolmente ridimensionati i successi di Tito, benché alla fine della guerra egli sia stato acclamato come l’unico capo della resistenza europea che fosse riuscito a liberare il proprio Paese. Molti gli attribuiscono tuttora il merito di avere distolto dai campi di battaglia del fronte orientale e del Mediterraneo truppe tedesche e satelliti e di avere influito materialmente sui risultati operativi della guerra. Più realisticamente, oggi si ritiene che la liberazione della Iugoslavia fu il risultato diretto dell’arrivo delle truppe sovietiche; quel che sembra sorprendente è che Stalin abbia acconsentito, tanto poco saggiamente (dal punto di vista sovietico) a ritirare le truppe dell’Armata Rossa dalla Iugoslavia nel Maggio 1945, un errore di valutazione che tolse peso, fin dal primo momento, al controllo sovietico nell’Europa centrale nel dopoguerra.

Dal punto di vista strategico, si ammette che c’è stata una esagerazione sul peso effettivo delle truppe che Hitler dovette distogliere dai teatri operativi principali per tenere a bada Tito. Il principale esercito di occupazione, in Iugoslavia, fu sempre quello italiano, presente, fino all’’8 Settembre con venti divisioni dislocate permanentemente in Iugoslavia e Albania (dove pure l’SOE appoggiava alcuni movimenti di guerriglia), a fianco di sei divisioni tedesche. Dopo lo scioglimento dei reparti italiani, i tedeschi dovettero inviare altre sette divisioni di rinforzo, e quattro l’esercito bulgaro, ma poche di esse erano adatto all’impiego sul fronte russo o italiano: una sola, la 1a Divisione da Montagna, richiamata dalla Russia nella primavera del 1943, era di prima categoria, le altre, comprese le SS Prinz Eugen e Handschar (croata), la 104, 107 e 118, erano composte da tedeschi etnici dell’Europa centrale o da minoranze non tedesche arruolate localmente, compresi grossi contingenti di musulmani bosniaci e albanesi, erano assolutamente inadatte alle operazioni contro formazioni meccanizzate quali quelle sovietiche o anglo-americane, la loro presenza in Iugoslavia e, addirittura, la loro esistenza, confermano quand’anche ve ne fosse ancora bisogno che i combattimenti in quel settore avevano più caratteristiche di guerra civile che internazionale.

In un certo senso, l’astuzia di Hitler di schierare serbi e croati nazionalisti e monarchici contro comunisti, si ritorse contro di lui, perché, nonostante il solo interesse tedesco verso il Paese fosse lo sfruttamento delle risorse minerarie e la protezione delle linee di comunicazione con l’Europa meridionale, finì per farsi coinvolgere nelle sue vertenze interne. E anche se, in termini strettamente militari, questo coinvolgimento gli costò molto poco, se si fosse preso la briga di costituire un governo pan-iugoslavo, incaricato di mantenere l’ordine all’interno della nazione dopo la sua travolgente viottoria dell’Aprile 1941, avrebbe semplificato molto i suoi accordi politico-militari, invece di corrompere cinicamente gli Stati confinanti con parti di territorio iugoslavo allo scopo di imporre una politica di occupazione che ben presto si dimostrò inefficiente.

Lo Special Operation Executive, anche se molto osannato da un potente gruppo di storici, alcuni dei quali erano stati suoi ufficiali, non ha potuto confermare la realtà di molte delle sue affermazioni, di avere contribuito in modo significativo alla sconfitta del nazismo, a causa dell’ambiguità dei suoi successi in Iugoslavia, suo principale teatro operativo, stesso giudizio che si può dare dell’OSS americano, costituito nel Giugno 1942.

Chiudiamo con la resistenza italiana per dire che anch’essa diede ben pochi problemi agli occupanti tedeschi, e praticamente nulla ne diedero quella ungherese, romena e bulgara (tutti ex-alleati tedeschi, per la cronaca).

Di conseguenza, bisogna riconoscere che l’offensiva “indiretta” incoraggiata a sostenuta dagli alleati anglo-americani contro Hitler, contribuì ben poco alla sua sconfitta: del suo esercito di 300 divisioni schierate in Europa alla data del 6 Giugno 1944, ultimo momento in cui aveva il controllo diretto sulla maggior parte del territorio conquistato fra il 1939 e la vigilia dell’attacco all’URSS, meno di venti possono essere riconosciute come impegnate nei compiti di sicurezza interna. Al di fuori della Serbia centrale, di zone della Russia occidentale e di piccole aree di ribellione sulle montagne della Grecia, dell’Albania, della Francia meridionale e dell’Italia settentrionale, tutte periferiche per quanto riguarda la condotta della guerra, l’Europa occupata rimase inerte sotto il suo giogo. L’”alba della liberazione”, promessa con tanto calore da Churchill, Roosevelt e dai vari governi in esilio, venne annunciata soltanto dal lampeggiare delle cannonate lungo i confini militari del Reich.

 

 

BIBLIOGRAFIA

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Asprey, Robert B. War in the Shadows: The Guerrilla in History, 1994.

Beckett, Ian F. W. Encyclopedia of Guerrilla Warfare, 1999.

Beckett, Ian F. W., Modern Insurgencies and Counter-Insurgencies: Guerrillas and Their Opponents since 1750

, 2001.

Joes, Anthony James. Guerrilla Warfare: A Historical, Biographical, and Bibliographical Sourcebook, 1996.

Keegan, John, The Second World War, 1988

Laqueur, Walter. Guerrilla Warfare: A Historical and Critical Study, 1997.



 





















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15 febbraio 2009 7 15 /02 /febbraio /2009 11:55





Fino all'ultimo giorno di guerra, e, in qualche caso, anche dopo, intere nazioni rimasero prigioniere dei nazisti: Norvegia, Danimarca, l'Italia e la Iugoslavia settentrionali, gran parte della Cecoslovacchia, le isole della Manica e alcune enclaves in territorio francese, come i porti di Lorient e St Nazaire, che capitolarono il 9 Maggio 1945. Le popolazioni di ognuno di questi territori vissero esperienze fra il terribile e l'atroce, ma una merita in particolare di essere ricordata, perché quasi sconosciuta: quella olandese.


Tra il Novembre 1944 e il Maggio successivo, 4 milioni e mezzo di persone attraversarono un'ordalia non dissimile da quelle, assunte a icona della barbarie nazista, dei ghetti ebraici dell'Est europeo, Varsavia, Lodz e altri. Nel corso di quei sei mesi, in Olanda, il tasso di mortalità infantile raddoppiò, e triplicò quello dei neonati. Dodicimila persone morirono per fame, altre 20-30 mila come conseguenza delle incursioni aeree alleate contro le basi missilistiche tedesche, 5-7000 nei campi di prigionia, almeno 30 mila in quelli di lavoro. Dei 2800 civili olandesi uccisi per rappresaglia dai tedeschi, 1560 furono fucilati o impiccati in quel lugubre inverno.

Quello che gli olandesi chiamarono De Hongerwinter, l'Inverno della Fame, è, probabilmente, la sola carestia avvenuta in tempi recenti in un Paese moderno e già all'epoca avviato alla post-industrializzazione. La ben documentata esperienza ha permesso agli scienziati di avere un quadro chiaro e meticolosamente delineato sugli effetti della carenza di cibo a danno della salute umana. Si è così scoperto che i bambini nati da donne incinte all'epoca della carestia, avevano maggiori, e altissime, probabilità di sviluppare diabete, obesità, disturbi cardiovascolari, microalbuminuria e altre malattie metaboliche. I bambini in questione, erano, come logico aspettarsi, più piccoli della normalità, sia al momento del parto che una volta sviluppati. Ma la sorpresa avvenne quando si poterono studiare i loro figli, e si scoprì che anche questi erano più piccoli del normale, come se la carestia avesse innescato un meccanismo epigenetico. Altre ricerche hanno dimostrato che i bambini che si trovavano al secondo trimestre di gravidanza delle madri durante la carestia, manifestavano un'elevata incidenza di schizofrenia e disturbi border line, oltre a un aumento dei casi di autismo.

  

 

Nel 1939, come già nel 1914, l’Olanda aveva tentato di salvarsi dal conflitto con una dichiarazione di neutralità, ma Hitler non era il Kaiser, e le sue armate, nel Maggio 1940, misero fine a ogni illusione. Eppure, dopo la sconfitta militare e la fuga della famiglia reale a Londra, la vita ritornò sorprendentemente normale, nel Paese dei mulini a vento; le istituzioni, e anche la popolazione civile, accettarono senza particolari difficoltà l’autorità tedesca. Esisteva un piccolo movimento di resistenza, ma la maggior parte della sua attività era concentrata nel mettere in salvo gli aviatori alleati abbattuti: il terreno pianeggiate e relativamente spoglio mal si prestava all’attività insurrezionale vera e propria. Gli oppositori preferivano lasciare clandestinamente il Paese, piuttosto che cercare una morte sicura nelle file della Resistenza.

Nonostante Anna (in realtà Annelies Marie) Frank e i suoi familiari siano riusciti a sfuggire ai nazisti per oltre due anni nella soffitta di Amsterdam, la brutale realtà fu che praticamente tutti gli ebrei olandesi vennero identificati, deportati e uccisi. Dei 117 mila deportati, solo 5500 fecero ritorno alle loro case, e, in tutto, 20 mila scamparono l’Endlösung der Judenfrage. “Quando cominciavano a rastrellare gli ebrei”, ricorda un olandese allora ventiduenne, “la gente diceva: non è possibile, non ci posso credere, non possono fare una cosa del genere. Ma dopo un po’ ci fecero l’abitudine”.

Per la maggior parte della popolazione, la vita proseguiva in maniera normale. “Non c’era tè, non c’era caffè, e alcuni erano in pericolo, ma un sacco di altra gente continuava ad andare in bicicletta la domenica con la famiglia, a giocare a tennis, il mangiare non mancava. Alcuni di noi furono sorpresi dalla disponibilità e cortesia dei tedeschi, perfino delle SS” . E gli olandesi ricambiarono quella cortesia, 25 mila di loro combatterono per la Wehrmacht, mentre meno della metà indossarono l’uniforme dell’Olanda Libera. In un rapporto inviato a Londra dai Servizi Segreti nel 1944, si legge “la scoperta che la liberazione avrebbe aumentato le difficoltà per via della vicinanza del fronte e dei combattimenti, è stata motivo di grave delusione tra una larga percentuale di cittadini olandesi, creando una vasta fascia di malcontento che potrebbe portarci a dover considerare i civili olandesi come ostili” .


La verità, una delle verità nascoste della Seconda Guerra Mondiale, è che la maggior parte della popolazione olandese accettò a malincuore la propria sorte di “liberati”. “Non ce la passavamo troppo male, niente a che vedere con quello che dovevano subire i russi o i polacchi e perfino i francesi, il coprifuoco delle 20 era un semplice fastidio, nulla di più” . La realtà è che l’Olanda era la società borghese forse più istintivamente ordinata d’Europa, il rispetto per l’autorità costituita, qualunque fosse, era assoluto. E i tedeschi trattarono in maniera civile chi piegava il capo. Una donna olandese, allora ventenne, ricorda che gli ufficiali tedeschi cedevano sempre il posto alle signore sui treni e su mezzi pubblici in generale, e quando fu investita da una camionetta guidata da un soldatino sbronzo, il comandante andò a trovarla in ospedale con fiori e cioccolatini e si scusò profondamente per l’accaduto .

Sarebbe tuttavia sbagliato scambiare la generale acquiescenza degli olandesi con un genuino entusiasmo: quando il governatore generale tedesco, l’odiato Arthur Seyss-Inquart (Seyß-Inquart, secondo la vecchia grafia), impose a tutti gli studenti universitari di sottoscrivere un giuramento di fedeltà al regime nazista, solo un’esigua minoranza obbedì. Tutti gli altri dovettero abbandonare gli studi.

A sinistra. Arthur Seyss-Inquart, Reichskommissar dell'Olanda occupata. La foto è stata fatta durante il processo di Norimberga, al termine del quale, sarà condannato a morte. Sentenza eseguita il 16 Ottobre 1946



Il 17 Settembre 1944, primo giorno dell’operazione Market Garden, 28 dei 30 mila ferrovieri olandesi scesero in sciopero, bloccando le vie di comunicazione. La reazione tedesca fu dura, i capi dello sciopero furono imprigionati e morirono, alcuni sotto tortura, altri fucilati. Alle attività partigiane si rispose con la medesima ferocia dimostrata in altri territori occupati. L’omicidio di un capitano dell’Abwehr, il 23 Ottobre ad Amsterdam, fu punito con la fucilazione di 29 ostaggi. Il 4 Novembre, i tedeschi fecero saltare con il municipio di Heusden, provocando la morte di 134 persone che vi erano rifugiate dalle loro case distrutte da un bombardamento alleato. Il fallimento di Market Garden e la stasi del fronte, portarono a un brutale giro di vite da parte degli occupanti, complice anche la sensazione di essere stati traditi dalla popolazione che avevano trattato con tanta civiltà. A ciò si aggiunga che i combattimenti avevano parzialmente distrutto la rete viaria rendendo difficoltosi i collegamenti e il trasporto delle derrate, che la quasi totalità del materiale rotabile sopravvissuta a Market Garden era stata requisita dalla Wehrmacht per uso esclusivamente militare al fine di trasportare truppe da e per il fronte, e che l’inverno 1944-45 fu durissimo.

La situazione peggiorò rapidamente. Ad Amsterdam, c’era gas solo per novanta minuti al giorno, si abbatterono alberi, staccionate, furono divelte le traversine ferroviarie e tranviarie, i mobili fatti a pezzi, sparirono perfino le porte non indispensabili, i morti furono tolti dalle bare per utilizzarne il legname per riscaldarsi. Niente tram, telefono, elettricità, per qualsiasi cosa si facevano code interminabili. Si evitavano le lunghe camminate per non consumare le scarpe, bene ormai introvabile.



A destra: il generale Johannes Blaskowitz, comandante le truppe tedesche in Olanda. Si suicidò in carcere nel 1948.



A Novembre, la razione settimanale di cibo era scesa a 300 grammi di patate, 200 di pane, 28 di legumi, 5 (c-i-n-q-u-e) di carne e altrettanti di formaggio: complessivamente circa 900 calorie, un terzo di quanto indispensabile in quel rigido inverno. Si mangiava minestra di ortica, pane di pula; cani e gatti, e perfino topi e piccioni scomparvero rapidamente, divorati da chiunque fosse in grado di prenderli.

Il primo ministro olandese in esilio, supplicò Bedell-Smith di liberare il suo Paese prima dell’arrivo dell’inverno, mentre il principe Bernardo d’Olanda, capo delle forze di Olanda Libera, tentava la medesima opera di persuasione a Londra. Eisenhower rispose freddamente che la strategia alleata doveva essere guidata da criteri militari, non da considerazioni politiche o, peggio, umanitarie.


I volti della fame



























Nel frattempo, con l’avvicinarsi del fronte e similmente con quanto accaduto in altri Paesi, vi fu un boom di arruolamenti nella Resistenza: prima di Natale, vi erano, nel Paese dei mulini a vento, 5000 partigiani combattenti, supportati da almeno 30 mila fra informatori, corrieri, tipografi clandestini, oltre a una rete di fuga molto bene organizzata, che riuscì a portare in salvo, spesso con inventiva e coraggio da far impallidire una storia romanzata, gli ultimi ebrei e quasi tutti i piloti alleati abbattuti nel territorio olandese. E fino all’ultimo, i tedeschi uccisero senza pietà chiunque fosse sospettato di far parte della Resistenza. “Per anni avevamo ascoltato i soldati tedeschi marciare per le nostre strade cantando i loro inni. Nell’inverno del 44 nessuno cantava più. Capimmo che qualcosa si era rotto irrimediabilmente”.



“Una nazione di antica civiltà è minacciata di distruzione dalla barbarie nazista”, comunicò a Londra la Resistenza, nel Gennaio 1945. “Chiediamo aiuto al mondo libero. Resisteremo”. Ma l’Europa era piena di gente che chiedeva a gran voce di essere salvata dalla barbarie nazista, e gli alleati occidentali, che già faticavano a rendersi conto del caso ebraico, dedicarono ben poca attenzione a quello olandese. Churchill, Roosevelt e Eisenhower sostenevano unanimi che tutto doveva dipendere dalla sconfitta del Terzo Reich, fonte di ogni male: distrarsi da quell’obiettivo per portar soccorso a una categoria di vittime del nazismo, qualunque essa fosse, poteva solo distrarre dall’obiettivo finale, facendo, in ultima analisi, il gioco di Hitler. Forse avevano ragione, ma era duro da accettare per chi stava morendo di stenti.




Si cucina quello che c'è, si mangia tutto...






L’”irraggiungibile vicinanza” (sono parole di Henry van der Zee nel suo libro) degli alleati era un autentico tormento. Il rombo dell’artiglieria era vicino, pochi chilometri dalle case, non passava giorno che i cacciabombardieri alleati non scendessero a mitragliare a volo radente treni, veicoli, perfino i soldati in bicicletta. La gente guardava con invidia gli aerei che tornavano verso l’Inghilterra, dove ad attendere l’equipaggio c’erano uova, salsiccia, caffè, succo d’arancia. Un B17 caduto in un canale, fu assaltato da una torma di persone alla ricerca di cioccolato, caramelle, gomma da masticare, latte condensato: sessantanni dopo, Ted van Meurs ricorda ancora di aver visto uno dei partecipanti al saccheggio addentare una barretta di cioccolato senza aver nemmeno tolto la stagnola che l’avvolgeva. Il giorno di Natale del 1944, alle finestre delle cucine del comando tedesco di Amersfoort, furono appese, a derisione della popolazione affamata, decine di oche, che furono poi consumate dai militari della Wehrmacht. Gli arti amputati ai feriti venivano gettati per strada perché gli affamati potessero cibarsene, anche se gli olandesi negano sia mai accaduto. La Croce Rossa internazionale mandava delle scorte di viveri, ma i nazisti ne ostacolavano con ogni mezzo la distribuzione. Gli olandesi ricordavano come, nel 1918, quando Germania e Austria erano ridotte alla fame dopo la sconfitta, molti bambini tedeschi e austriaci furono inviati in Olanda per essere curati e nutriti. E chissà, si diceva, che fra gli affamatori di oggi non vi fosse qualche piccolo di allora.



















Hongertochten, le marce della fame





Gli espedienti, come rubare rape e carote dagli orti dei vicini, o cercare di dar da credere al negoziante di avergli già consegnato il buono di razionamento, erano diventati uno stile di vita. Si andava in bicicletta per le campagne nelle cosiddette Hongertochten (marce della fame) in cerca di qualche fattoria cui chiedere cibo in cambio di gioielli, orologi, spille, pellicce, capi di abbigliamento pregiati. A volte si legava alla bicicletta un carrettino sul quale si caricavano i mobili da scambiare, preziosi mobili e pendole d’antiquariato passarono di mano per una manciata di patate o un po’ di burro o qualche uovo.

In Gennaio la razione quotidiana scese a circa 500 calorie. “Chi ha fame grida”, scrisse il 30 Gennaio un giornale, “ma chi muore di fame tace”. E sull’Olanda era calato un profondo e cupo silenzio. La gente se ne stava chiusa in casa per risparmiare le energie, le scuole erano chiuse per mancanza di riscaldamento, industria e commercio fermi. Nelle strade silenziose (solo i tedeschi e i collaborazionisti avevano veicoli a motore), si innalzavano cumuli di spazzatura brulicanti di topi, non essendoci mezzi per rimuoverli. Esaurite le rape e le carote, la gente cominciò a nutrirsi dei tulipani. In quell’inverno, ne furono consumati oltre 150 milioni. “Prendete un litro d’acqua”, consigliava una ricetta, “una cipolla, sei bulbi, sale, un cucchiaino d’olio e del surrogato di curry. Rosolate la cipolla nell’olio con il curry, aggiungete l’acqua, e quando bolle, gettateci dentro i bulbi”. Il risultato era semplicemente raccapricciante, ma forniva qualche caloria e una manciata di vitamine.

Jan de Boer, uno dei nove figli di un docente universitario dell’Aia, notò una mattina dalla finestra di casa un cavallo macilento defecare sulla neve. Poco dopo rimase sbigottito nel vedere un passante scendere quasi a tuffo dalla bicicletta, accovacciarsi e rovistare nello sterco ancora fumante alla ricerca di qualche granaglia non digerita, che si ficcava direttamente in bocca . L’allora sedicenne Willem van den Broek non sognava avventure esotiche e belle ragazze, ma pane, salame, formaggio, cioccolato, caramelle. “Ho imparato che l’essere umano è uno stomaco con un corpo intorno”, dirà anni dopo. C’è chi ricorda di avere masticato zolle di terra alla ricerca di larve o di formiche…

A risentire maggiormente delle privazioni furono, come è facile immaginare, i bambini. Il peso medio di un quattordicenne, era 41 chili nel 1940, ma solo 37 alla fine della guerra, e la statura media si era abbassata di due centimetri. Le coetanee avevano perso addirittura 7 chili e 6 centimetri. Tifo e difterite erano frequenti, alla quasi totalità delle donne si era interrotto il ciclo mestruale, gli uomini erano diventati impotenti. I cadaveri si accumulavano nelle chiese senza che nessuno avesse la forza per seppellirli. “La gente muore per strada”, fu il messaggio che la Resistenza olandese mandò a Londra cercando di ottenere qualche aiuto. “Non possiamo andare avanti così”.

Le sofferenze erano aggravate dai bombardamenti. Dall’Olanda, i nazisti lanciavano le V2 sulla Gran Bretagna, depositi e basi di lancio erano posti deliberatamente nelle vicinanze dei centri abitati, gli attacchi alleati, per quanto ci si sforzasse di essere precisi, fecero più vittime fra i civili olandesi di quanti inglesi fossero stati uccisi dalle armi di rappresaglia hitleriane al di là del Mare del Nord.

Il risentimento degli olandesi verso gli alleati che non arrivavano, era altrettanto forte dell’odio che ora provavano per i tedeschi occupanti. “La gente era furibonda”, ricorda Theodore Wempe,”ma perché non arrivano?, si chiedeva”. Ma ancora il 27 Marzo 1945, Ike rispondeva al costernato primo ministro olandese in esilio, che l’unico modo per aiutare l’Olanda era finire in fretta la guerra.


In Olanda, nel frattempo, la fame, le bombe alleate e le rappresaglie tedesche continuavano a uccidere. Il 1° Aprile, i soldati del Primo Corpo canadese liberarono la città di Enschende, trovando appesi agli alberi davanti il municipio 12 civili, ancora caldi: i tedeschi li avevano impiccati all’approsimarsi dei carri. A Zutphen, cinque giorni dopo, le truppe inglesi trovarono, sulla strada di ingresso nella cittadina, a mo’ di benvenuto, i cadaveri, nudi e torturati, di dieci civili. Il giorno seguente, il comandante tedesco, generale Blaskowitz, ordinò di distruggere chiuse e canali per ostacolare l’avanzata alleata. La diga a guardia del polder di Wieringen, il granaio d’Olanda, fu fatta saltare inondando 20 mila ettari di terra agricola, che si andavano ad aggiungere ai 230 mila già allagati in precedenza.




Targa commemorativa di uno dei negozi che distribuì il "pane svedese".


Uno dei più straordinari episodi della guerra, tuttora quasi sconosciuto, ebbe inizio il 4 Aprile 1945 nell’isola di Texel, al largo della costa olandese. Nella sua guarnigione, appartenente all’882° battaglione della Wehrmacht, si trovavano 550 georgiani catturati sul fronte orientale. Ammutinatisi, uccisero tutti i tedeschi che trovarono, quindi tre di essi, guidati da un capo della Resistenza locale, salirono su una barca e raggiunsero la costa britannica, sbarcando a Cromer, nel Norfolkshire, il 6 Aprile. Accolti con scarsissimo entusiasmo dagli inglesi, dopo un sommario interrogatorio, furono spediti in campo di concentramento col loro accompagnatore olandese. Nessuna iniziativa fu presa per soccorrere gli ammutinati di Texel e la popolazione civile dell’isola, che furono così rapidamente e brutalmente sterminati dai tedeschi per ordine personale di Hitler. “Eravamo insorti contro la tirannide nazista”, ricorda uno dei tre internati in Inghilterra, “ma invece di ricevere aiuto siamo stati traditi”. Il 20 Aprile le truppe tedesche ebbero ragione delle ultime sacche di resistenza nell’isola ammutinata: 117 civili olandesi, oltre 500 georgiani e 800 soldati tedeschi erano morti inutilmente, appena una settimana prima del suicidio di Hitler.





L’agonia dell’Olanda fu parzialmente alleviata dall’arrivo di aiuti alimentari dalla neutrale Svezia (il "pane svedese") e dalle operazioni Manna e Chowhound, lanciate dagli anglo-americani di comune accordo col governatore tedesco Arthur Seyss-Inquart ormai conscio della fine e desideroso di ingraziarsi i vincitori che lo impiccheranno a Norimberga: a partire da 29 Aprile, i Lancasters e gli Halifaxes dell’RAF, assieme ai Liberators e ai Fortresses delle USAAF, furono autorizzati a volare sul territorio olandese ancora occupato dai tedeschi, per lanciarvi viveri; in una decina di giorni, saranno oltre 11 mila le tonnellate di derrate (comprese migliaia di razioni K) “consegnate” in questa maniera agli stremati olandesi.

 

 


BIBLIOGRAFIA:

Max Hastings, Armageddon ― The Battle for Germany, 1944-1945, Alfred A. Knopf, 2005


Henri A. van der Zee, The Hunger Winter: Occupied Holland 1944-1945, University of Nebraska Press, 1998.
Stein, Z. Famine and human development: the Dutch honger winter of 1944-1945. New York, Oxford University Press, 1975
Hart, Nicky Famine, maternal nutrition and infant mortality: a re-examination of the Dutch Hunger Winter.
Population Studies, Vol. 47, No. 1, Mar 1993. 27-46 pp.














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